Pace, fede ed economia
Mons. Pierbattista Pizzaballa
Patriarca Latino di Gerusalemme
Presentazione ad un seminario della scuola di economia nel contesto di “Economy of Francis”
Introduzione: ri-animare l’economia
Credo che sia doveroso da parte mia premettere che non sono esperto in economia. Le dinamiche economiche mondiali e regionali mi sono note come a qualsiasi altro cittadino che cerca di informarsi, ma nulla di più.
Avendomi invitato a parlare in questo contesto, presumo e considero scontato che la prospettiva dalla quale dovrò cercare di analizzare il tema Pace, fede ed economia sia quella di chi vive in Medio Oriente.
Non attendete da me, quindi, un’analisi generale dei problemi sociali ed economici in generale. Del resto, va comunque detto che la situazione e i destini di questa regione sono per un verso determinanti anche per gran parte dell’Occidente e non solo, e dall’altro sono simili a molte altre regioni economicamente depresse.
La regione levantina, infatti, da un lato è tra le più ricche al mondo di risorse energetiche di cui il mondo è sempre più affamato e quindi economicamente appetibili, dall’altro è paradossalmente tra le regioni al mondo più conflittuali e socialmente depresse.
Mi si consenta, dopo aver delineato brevemente il fenomeno della globalizzazione attuale, invertire gli elementi indicati e sviluppare così la mia esposizione in tre punti: fede e sviluppo umano integrale, pace e fraternità universale, nuova economia e uomo nuovo. Tale inversione ha ovviamente un senso ben preciso, che – come spero – emergerà più chiaramente nel corso della conferenza.
Dinanzi ai vertiginosi cambiamenti globali cui stiamo assistendo e le sfide sempre più pressanti da cui nessuno può dirsi esente, e data l’interconnessione che caratterizza i nostri tempi, è quanto mai urgente, come Papa Francesco ha affermato in un suo recente messaggio a voi indirizzato, «ri-animare l’economia». Il Pontefice ha indicato Assisi come luogo ideale e la figura di S. Francesco come punto di riferimento per l’ispirazione di questa nuova «anima» dell’economia, giacché «dalla sua scelta di povertà scaturì (…) un visione dell’economia che resta attualissima».
Nella sua enciclica Fratelli tutti (2020), il Papa ha proposto il Santo di Assisi come icona di una fraternità universale capace di «un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio». Per me, chiamato a svolgere il mio ministero in Medio Oriente, prima come frate, professore, parroco e responsabile della comunità cristiane di espressione ebraica in Terra Santa, poi come Custode di Terra Santa e ora – in modo del tutto inatteso – come Patriarca Latino di Gerusalemme, è quanto mai significativo che Papa Francesco abbia voluto mettere a fondamento dell’enciclica Fratelli tutti l’episodio della visita di S. Francesco al sultano d’Egitto Malik-al-Kamil. Così asserisce il Pontefice, all’inizio dell’enciclica, riguardo a tale storico incontro: «Là Francesco ricevette dentro di sé la vera pace, si liberò da ogni desiderio di dominio sugli altri, si fece uno degli ultimi e cercò di vivere in armonia con tutti. A lui si deve la motivazione di queste pagine».
Globalizzazione e nuove sfide
Siamo dinanzi a nuove e drammatiche sfide a livello globale, come dimostra, ad esempio, la pandemia di Covid-19, che stiamo ancora affrontando e di cui purtroppo non conosciamo ancora tutte le conseguenze non solo a livello sanitario, ma anche psicologico, sociale, politico ed economico. La paura che ne deriva segna, direttamente o indirettamente, la vita del nostro tempo, e sembra averci paralizzato. Il 2020 è stato un anno caratterizzato proprio dalla paura, a tutti i livelli. Tutto sembra sia stato ribaltato da questo infinitesimale ma potente virus che ha fatto crollare la nostra «torre di Babele», anche economica, che ha cioè azzerato in poco tempo i nostri progetti e ci ha lasciati disorientati. Come conseguenza della pandemia, l’economia di varie nazioni ha subito un collasso preoccupante: sono aumentati i disoccupati, molte industrie e piccole imprese hanno dovuto chiudere, sono aumentate le file dei nuovi poveri alle porte delle chiese e delle associazioni caritative … Il futuro di tanti governi, dell’economia e del lavoro si presenta incerto e, in certi casi, inquietante.
Un secondo esempio di «crisi globalizzata» è il fenomeno delle dimostrazioni – talora particolarmente violente –, in svariate nazioni del mondo, le quali, pur avendo motivazioni specifiche a livello locale, hanno varie basi comuni, come, ad esempio, l’ingiustizia sociale nel campo del lavoro, le enormi differenze di una società tra un’élite benestante che ha in mano l’economia e molti poveri, nuove forme di povertà, il grave inquinamento dovuto allo sfruttamento della terra, l’uso della guerra e della violenza per un più facile accesso alle risorse energetiche, violenza politica, ecc… Le teorie economiche sulle quali si sono basate in questi ultimi decenni le politiche internazionali, coordinate spesso dagli organismi internazionali, non hanno insomma portato un mondo più giusto e solidale, non hanno cancellato la povertà, ma piuttosto il contrario e ora più che mai stanno mostrando il loro fallimento. Ma questi sono argomenti che voi conoscete meglio di me.
Un terzo esempio sono le nuove tecnologie che, se da un lato costituiscono una magnifica opportunità di progresso per l’umanità, dall’altro non sono accessibili a tutti e al tempo stesso fanno sorgere innumerevoli questioni in campo etico.
Ho fornito brevemente solo tre esempi di sfide della cosiddetta «globalizzazione», ma penso che ciascuno ne potrebbe aggiungere tante altre. Credo che voi conosciate meglio di me quali siano le gravi distorsioni politico-sociali ed economiche nel mondo.
Non è un segreto che spesso le istituzioni religiose (e non le religioni!) abbiano giocato un ruolo negativo in tale contesto: talvolta esse sono state strumentalizzate come elemento di status quo, ovvero di conservazione dello stato esistente delle cose, talora – come in Medio Oriente, ma non solo – sono state usate per giustificare la violenza, l’esclusione dell’altro e l’ingiustizia, o sono state incapaci di essere una voce profetica che chiami l’uomo alla responsabilità comune per la giustizia, l’uguaglianza, il rispetto dei diritti umani, ecc… A causa di ciò, molti dicono che sarebbe meglio escludere la religione dalla vita pubblica o eliminarla del tutto.
Le nazioni occidentali hanno sviluppato raffinate teorie riguardo la necessità di escludere Dio dalla vita pubblica, perché – come dicono – solo così si può raggiungere una vera libertà. Ma anche questa teoria si è mostrata fragile. Le grandi dittature del Novecento, ad esempio, dichiaratamente atee e antireligiose, non si sono mostrate così docili e aperte come si prefissavano di essere. Anche il famoso ateo praticante Douglas Murray ha dovuto argutamente ripensare tal teoria. Egli, infatti, asserisce che molti atei ottimisti credevano che, una volta detronizzato e cacciato via Dio dalla scena, si sarebbe potuto vivere come adulti e portare avanti l’utopico progetto di creare una società basata sulla fede in noi stessi. Egli stesso, tuttavia, ha dovuto riconoscere che questi scettici erano sfortunatamente scettici su tutto fuorché sulla bontà dell’umanità.
La storia dell’umanità, dalle origini fino ai giorni più recenti, dimostra infatti che l’umanità – perfino senza Dio – non è necessariamente buona, positiva o più libera.
La globalizzazione in sé – insomma – è un fenomeno positivo. Esso, tuttavia, è anche problematico quando pone al centro della sua attenzione non la persona umana in quanto tale, come soggetto di diritti e doveri, quanto piuttosto l’interesse globale. L’economia globale ha fortemente modificato il concetto di lavoro, il ruolo dei sindacati, i diritti acquisiti nel secolo precedente, esponendo il lavoratore al precariato. Le crisi economiche degli ultimi anni hanno accentuato il fenomeno che pone al centro l’interesse economico, a scapito di quello della persona. La comunità religiosa che insiste per porre l’interesse della persona al centro dell’attenzione e non un generico benessere economico globale, è quindi accusata di fermare il cammino del progresso, di protezionismo e così via.
Il fenomeno della migrazione dei popoli ha creato opportunità incredibili sul piano del dialogo interculturale, ma ha creato anche molte paure. La religione viene accusata o di accoglienza acritica delle diverse popolazioni o viene strumentalmente usata per affermare e difendere le identità culturali rispetto all’avanzare delle nuove popolazioni. In quasi tutte le società d’origine dei migranti, inoltre, vi è un legame tra religione e Stato, accompagnato da un profondo deficit democratico, mentre nella maggior parte dei paesi d'accoglienza è evidente la secolarizzazione delle società.
Di fronte al fenomeno migratorio emerge quindi una domanda di riconoscimento e di rispetto, un bisogno di conoscenza delle altre religioni in tutta la loro diversità e nei loro legami con le diverse realtà politiche e culturali. La religione in questo senso ha un ruolo fondamentale, che è quello da un lato di custodire l’identità storica di chi accoglie, serenamente e criticamente. Dall’altro, essa ha il compito di far comprendere che affermare un’identità, non significa necessariamente escludere quella altrui. Si deve evitare, insomma, da un lato l’affermarsi di identità generiche, teoriche, non legate alla storia e alla cultura dei popoli che accolgono e dall’altro è necessario accogliere l’altro, senza paure e serenamente. È inoltre necessario che la religione aiuti a riflettere sulla categoria della memoria, soprattutto in Occidente. C’è una grande differenza tra la memoria storica del paese d’accoglienza e la memoria dei migranti. Questi manifestano sempre di più la volontà di instaurare un dialogo con le società ospitanti e la volontà di essere riconosciuti non solo come lavoratori e consumatori, ma anche come esseri umani, con una propria cultura, storia e tradizione. In conclusione, la risposta ai problemi di questo genere non è cancellare le identità, ma porle criticamente e serenamente in dialogo tra loro. Una fede che dialoga, non si annacqua ma si arricchisce e si rafforza.
Le sfide globali, a cui ho superficialmente accennato, hanno bisogno di una reazione chiara e una resilienza forte. Tale resilienza non dovrebbe essere basata solo su una risposta immediata a problemi specifici. Non possiamo, ad esempio, ripristinare la giustizia, avere un ambiente sicuro e pulito, evitare qualsiasi tipo di sfruttamento e rispettare i diritti di tutti solo mediante leggi specifiche. I cambiamenti stabili nella società, nel campo economico come in ogni altro contesto, devono basarsi innanzitutto su un rinnovamento spirituale e un cambiamento culturale che, a sua volta, richiede investimenti nell’ambito educativo e tempi lunghi. Non è tempo, insomma, di soluzioni ad emergenze, ma di ripensare dalla radice i modelli religiosi e culturali sui quali si fondano le nostre politiche e relazioni a tutti i livelli.
Fede e sviluppo umano integrale
La fede è esperienza di Dio, avere coscienza della Sua presenza, vivere di quella relazione che sostiene la vita personale e anche sociale. Il credente realmente radicato nella vita in Dio non teme il confronto e non si sente minacciato dalle differenze, perché in Dio ha già tutto e non gli manca nulla.
È sempre più necessario operare un recupero del significato profetico ed educativo dell’esperienza religiosa. Essa non può più essere innanzitutto un’appartenenza decisa dalla nascita o dalle circostanze alle quali ci si adegua, ma sempre più un’esperienza scelta e voluta. È compito dei leader religiosi, in altre parole, aiutare le proprie rispettive comunità a rimettere a fuoco e riappropriarsi di ciò che di fondante vi è in ogni personale e comunitaria esperienza religiosa e quindi anche nella propria identità di credente e di cittadino. Ciò comporta anche saper discernere e comprendere ciò che di costitutivo e di fondante appartiene alla nostra fede, ed è destinato a restare sempre, e quanto invece è frutto di interpretazioni di un tempo che non è più il nostro.
L’esperienza religiosa così vissuta, una fede, cioè, che dialoga realmente e integralmente con la vita, personale e sociale, non solo non è un ostacolo allo sviluppo, ma ne diventa anche il volano e fondamento solido, perché tutto ciò che è fondato in Dio, è destinato e servire integralmente l’uomo.
Un reale rinnovamento dell’economia, dunque, non potrà mai prescindere anche da una seria e serena dimensione religiosa o comunque dal confronto con essa,
Sullo sfondo sopra delineato possiamo ora indicare il fondamento di tale rinnovamento, di tale «primavera» che Papa Francesco, richiamandosi al suo predecessore S. Paolo VI, ha auspicato recentemente rivolgendosi proprio a voi:
Come fa bene lasciar risuonare le parole di San Paolo VI, quando, nel desiderio che il messaggio evangelico permeasse e guidasse tutte le realtà umane, scriveva: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico lo sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. […] – ogni uomo e tutto l’uomo! –. Noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera». In questo senso, molti di voi avranno la possibilità di agire e di incidere su decisioni macroeconomiche, dove si gioca il destino di molte nazioni. Anche questi scenari hanno bisogno di persone preparate, «prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16), capaci di «vigilare in ordine allo sviluppo sostenibile dei Paesi e per evitare l’asfissiante sottomissione di tali Paesi a sistemi creditizi che, ben lungi dal promuovere il progresso, sottomettono le popolazioni a meccanismi di maggiore povertà, esclusione e dipendenza».
La citazione iniziale di S. Paolo VI, tratta dal quindicesimo paragrafo dell’enciclica Populorum progressio (1967), evidenzia che limitarsi a riflessioni di ordine economico, politico o culturale, senza che queste siano incluse o aperte allo sviluppo integrale dell’uomo e alla sua dimensione spirituale, sarebbe nettamente riduttivo. Il concetto di «sviluppo umano integrale», che ha profonde motivazioni teologiche e antropologiche, è ormai un caposaldo irrinunciabile della dottrina sociale della Chiesa e s’intreccia con le sfide della globalizzazione, dell’economia e dell’ambiente, come emerge chiaramente nel pensiero dell’attuale pontefice. Tale concetto affonda le sue radici nelle encicliche Mater e Magistra (1961) e Pacem in Terris di S. Giovanni XXIII, nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II (1965), secondo le quali il miglioramento delle condizioni sociali della persona deve accompagnare la crescita economica e avere come traguardo «la piena espansione umana» della persona, inclusa la sua dimensione spirituale. Lo stesso concetto è stato notevolmente sviluppato, oltre che dal magistero di S. Paolo VI, anche da quello di S. Giovanni Paolo II (cf. spec. l’enciclica Sollicitudo rei socialis, 1987) e di Benedetto XVI.
Così comprendiamo come Papa Francesco si colloca saldamente sul fondamento posto dal Concilio Vaticano II e dal magistero dei suoi predecessori, in modo da poter marcare con decisione la strada che dovete e dobbiamo tutti seguire:
La prospettiva dello sviluppo umano integrale è una buona notizia da profetizzare e da attuare – e questi non sono sogni: questa è la strada – una buona notizia da profetizzare e da attuare, perché ci propone di ritrovarci come umanità sulla base del meglio di noi stessi: il sogno di Dio che impariamo a farci carico del fratello, e del fratello più vulnerabile (cfr Gen 4,9). «La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente – la misura dell’umanità –. Questo vale per il singolo come per la società»; misura che deve incarnarsi anche nelle nostre decisioni e nei modelli economici.
Dato che Papa Francesco ci ha incoraggiato nella missione di «ri-animare» l’economia, andiamo dunque all’anima del nostro tema.
Pace e fraternità universale
La pace è la premessa necessaria che sta alla base di ogni iniziativa che ponga al centro la persona umana e lo sviluppo integrale come pensato da Papa Francesco o, come si usa dire oggi, sostenibile. Anche lo sviluppo, fine a se stesso, infatti, che non tenga conto delle esigenze del creato e della società, che non consideri i diritti di tutti, può diventare un idolo.
Senza la pace, in definitiva, non si può avere una riflessione culturale serena che abbia un respiro aperto e libero, capace di proporre e costruire.
In ebraico, come tutti sappiamo, pace si traduce con Shalom. La radice di questo termine (S.L.M.) significa interezza. Pace è sinonimo di pienezza e integrità. In altre parole, per avere davvero la pace, è necessario essere capaci di una visione sulla vita dell’uomo e del mondo che sia integrale e non parziale.
Un approccio parziale è quello che ritiene di avere già le idee chiare sulla situazione e in un certo senso rifiuta un’analisi critica della complessità, e dove la lettura degli eventi viene elaborata attraverso il filtro delle proprie opinioni già assunte. Non c’è spazio per altre valutazioni: quando c’è un conflitto non c’è spazio per le sfumature e bisogna scegliere dove stare, e basta.
Altro approccio parziale è anche quello che vuole affrontare o cercare di comprendere quanto accade da una prospettiva solo politica, o solo militare, o solo economica, o solo religiosa.
Affrontare i problemi complessi solo da una prospettiva, escludendo tutte le altre, e senza collocarle nel loro contesto più completo, ha portato molti a commettere errori anche nel passato più recente. La mancanza di una visione integrale lascia spazio al sorgere di integralismi, non solo religiosi.
Riguardo al tema della pace, mi si consenta di partire da alcune riflessioni incentrate sulla situazione del Medio Oriente, mondo che conosco meglio. Credo sia importante iniziare con il collocare le nostre comunità nel loro attuale contesto politico, religioso e sociale. Quello che è comunemente definito «Medio Oriente» o «Regione Araba», ha vissuto negli ultimi tre decenni un radicale cambiamento. Dagli inizi degli anni novanta, con la cosiddetta Guerra del Golfo, è iniziato un lungo periodo di travaglio, non ancora terminato, che ha cambiato radicalmente gli equilibri politici e socio-religiosi di tutta la regione. L’invasione dei Paesi Occidentali dell’Iraq, con la caduta del regime di Saddam Hussein, è ritenuta il momento in cui ha avuto inizio questo lungo travaglio. Brevemente e con il rischio di approssimazione, possiamo dire che da quel momento abbiamo assistito a un esacerbarsi dello scontro all’interno del mondo Islamico tra Sunniti e Sciiti, che è anche una guerra di potere tra Arabia Saudita e suoi alleati della regione, con Iran e i suoi alleati. Non manca, naturalmente, la componente internazionale, con lo schieramento dei Paesi occidentali da una parte e Russia dall’altra. Nella questione internazionale dobbiamo includere anche gli interessi legati alle questioni energetiche e al commercio delle armi sempre molto profittevole. Il ruolo della Turchia è stato e resta determinante, sia per la questione curda che per i legami con il mondo sunnita, ma non solo. Iraq, Yemen e Siria sono i Paesi che hanno pagato il prezzo più alto in termini di vite umane e tragedie di ogni genere.
Le primavere arabe, che sembravano essere l’inizio di una rinascita del mondo arabo, in realtà sono stato l’inizio di una tragedia che ha coinvolto tutta la mezzaluna fertile, dal Nord Africa fino alla Siria. Il fondamentalismo islamico che ha caratterizzato principalmente quei Paesi in questo periodo, si è nutrito e si è sviluppato in questo vuoto politico e sociale, seguito alle primavere arabe, ma si è alimentato anche grazie ad interessi ed influenze di parte della comunità internazionale.
Il Daesh è frutto anche di tutto ciò, anche se non si può negare una formazione, dentro parte dell’Islam, al disprezzo per chi non è musulmano, che ha portato alle forme estreme che abbiamo conosciuto. In Medio Oriente non si può separare nettamente la componente religiosa da quella identitaria. Dal momento che le lotte settarie sono state il comune denominatore di questi anni, non si può nemmeno separare il fenomeno del fondamentalismo islamico dal fenomeno delle lotte settarie e identitarie di cui tutta la Regione è stata vittima e di cui il fondamentalismo si è fatto tramite.
Non dobbiamo infine dimenticare la questione degli sfollati in Sira e Iraq, dei profughi in Libano, Giordania e Turchia. Milioni di profughi si trovano ora in quei Paesi, con conseguenze economiche e sociali prevedibili, senza una prospettiva sicura né nei tempi, né nelle destinazioni.
La questione israelo-palestinese non è estranea a tutti questi cambiamenti. La lotta sunnito-sciita ha determinato anche un cambio di strategia in alcuni paesi arabi in chiave anti-iraniana, avvicinandosi ad Israele. Israele e Iran, infatti, sono noti nemici pubblici. A farne le spese sono in particolare i palestinesi, che sembrano non essere più al centro dell’attenzione nemmeno nei Paesi arabi. Le debolezze interne (divisione Hamas, Fatah) hanno poi fatto il resto. Preoccupante e gravissima la situazione anche umanitaria nella striscia di Gaza. La proposta due popoli, due stati diventa sempre più complicata, anche se resta l’unica ideale.
La questione di Gerusalemme, dopo lo spostamento dell’ambasciata USA, è tornata al centro del dibattito internazionale e delle tensioni tra Israele e Palestina. Le Chiese si sono espresse in proposito in maniera chiara. In questo momento è impossibile pensare a una possibile prossima soluzione, poiché le relazioni tra le due entità sono praticamente inesistenti.
Le comunità cristiane hanno pagato un prezzo altissimo in questa tragedia. Se è vero che non sono state né il primo né l’unico obiettivo delle persecuzioni settarie, non si può comunque negare il costo gravissimo pagato in termini di vite umane e di impoverimento generale della vita delle Chiese.
Ci troviamo, insomma, al crocevia di cambiamenti epocali – come li ha definiti Papa Francesco – che ancora per molto tempo saranno all’origine di tragedie e difficoltà di ogni genere per tutti.
Come uno che ha vissuto e oggi continua a vivere nella regione, anch’io mi chiedo: cosa sta realmente accadendo e come siamo arrivati a questa spaventosa situazione?
Permettetemi ora di presentare alcune possibili piste di riflessione relative alla pace. L’espressione «domandate pace per Gerusalemme» può essere letteralmente tradotta dall’ebraico «domandate la pace di Gerusalemme».
La pace che dobbiamo invocare e costruire è appunto «la pace di Gerusalemme»: pace che non è soppressione delle differenze, annullamento delle distanze ma nemmeno tregua o patto di non belligeranza garantito da patti e da muri. Dobbiamo impegnarci per una pace che sia accoglienza cordiale e sincera dell'altro, volontà tenace di ascolto e di dialogo, strada aperta su cui la paura e il sospetto cedano il passo alla conoscenza, all'incontro e alla fiducia, dove le differenze siano opportunità di compagnia e collaborazione e non pretesto per la guerra.
Dovremo sempre più uscire dalla preoccupazione di occupare strutture fisiche e istituzionali, per concentrarci maggiormente su dinamiche belle e buone di vita che come credenti possiamo avviare. Certo: talvolta anche per noi le tentazioni della fuga e della rassegnazione, il facile compromesso con il potere o la risposta violenta possono apparire come l’unica reazione possibile al tempo difficile che ci è dato da vivere.
A questo proposito, mi viene da ricordare qui la risposta di mons. Pierre Claverie, vescovo di Orano in Algeria, a chi gli chiedeva perché mai avesse accettato la nomina episcopale in una terra dilaniata dal fanatismo islamico che lo assassinò il 1 agosto 1996: «Mi interessa una Chiesa il cui capo può essere ucciso come qualsiasi altro uomo». Il riferimento era allora all’attentato subito da Giovanni Paolo II. Come credenti e religiosi, saremo una presenza «interessante» nella misura in cui la nostra profezia sarà la nostra testimonianza quotidiana, perché in un contesto sociale e politico dove la sopraffazione, la chiusura e la violenza sembrano l’unica parola possibile, noi continueremo ad affermare la via dell’incontro e del rispetto reciproco come l’unica via d’uscita capace di condurre alla pace.
La pace ha bisogno della testimonianza di gesti chiari e forti da parte di tutti i credenti, ma ha anche bisogno di essere annunciata e difesa da parole altrettante chiare.
Ci troviamo per questo spesso a un bivio, quasi chiamati a scegliere tra la necessaria denuncia della violenza e del sopruso, sempre perpetrato a danno dei più deboli, e il rischio di ridurre la religione ad «agente politico» o addirittura a partito o fazione, dimenticandone la vera natura ed esponendola a facili e superficiali strumentalizzazioni. Il nostro stare nel mondo come credenti non può rinchiudersi in intimismo devozionale, né può limitarsi solamente al servizio della carità per i più poveri, ma è anche parresìa, non può cioè esimersi dall’esprimere, nei modi propri di ciascuna esperienza religiosa, un giudizio sul mondo e sulle sue dinamiche (cf Gv 16, 8.11). Sappiamo bene come in Medio Oriente la politica avvolga la vita ordinaria in tutti i suoi aspetti. Tutto diventa politica e ciò interroga seriamente tutte le nostre istituzioni religiose, coinvolte in conflitti che logorano la vita dei nostri fedeli, i quali attendono da noi una parola di speranza, di consolazione, ma anche di verità. Si impone qui un discernimento davvero difficile e mai raggiunto una volta per tutte.
Ciò non significa tacere di fronte alle ingiustizie o invitare al quieto vivere e al disimpegno. L’opzione preferenziale per i poveri e i deboli, però, non fa di noi un partito politico. Prendere posizione, come spesso ci è chiesto, non può significare diventare parte di uno scontro, ma deve sempre tradursi in parole e azioni a favore di quanti soffrono e gemono e non in invettive e condanne contro qualcuno. Può essere facile e comodo, a volte, unirsi al coro delle critiche e delle recriminazioni e ci otterrebbe forse anche l’applauso e il consenso, ma potrebbe trattarsi di una tentazione mondana. Siamo chiamati anche noi credenti, insomma, ad amare e servire la polis e condividere con le Autorità civili la preoccupazione e l’azione per il bene comune, nell’interesse generale di tutti e specialmente dei poveri, alzando sempre la voce per difendere i diritti di Dio e dell’uomo, ma senza entrare in logiche di competizione e di divisione.
Nel contesto che abbiamo sopra abbozzato, la responsabilità della leadership religiosa, specialmente in Medio Oriente, è essenziale. Invece di essere il supporto religioso di regimi politici poco credibili, la leadership religiosa dovrebbe prima di tutto cooperare con tutta la parte migliore della società nel creare una nuova cultura della legalità, e diventare una voce libera e profetica di giustizia, diritti umani e pace. Questi valori non sono solo valori umani, ma prima di tutto sono espressione del desiderio di Dio per l’uomo. Il nostro contributo come leadership religiosa alla resilienza e all’innovazione in mezzo alle attuali sfide globali non è quello di inventare di nuovo la ruota: trovare, cioè, nuove e moderne strategie operative, ma di essere noi stessi, vale a dire testimoni credibili, sinceri e appassionati di Dio. Fede e politica, piaccia o no, hanno sempre avuto una stretta relazione tra loro sul piano delle relazioni sociali. La fede, le religioni hanno una funzione per la vita delle comunità nazionali e la politica ha sempre dovuto di conseguenza avere a che fare la religione e la sua funzione pubblica.
Ogni generazione, inoltre, ha sempre dovuto individuare i criteri e le forme per regolare il rapporto tra questi due ambiti della vita sociale di ogni Paese. La nostra generazione e quelle future, si trovano di fronte a sfide che possiamo definire uniche nel loro genere, poiché in questi tempi non si tratta solo di definire i rapporti tra le due sfere su menzionate, ma anche di ripensare la politica e la religione e il loro ruolo in sé e non solo in rapporto all’altro. Non di rado politica nazionale e religione si trovano oggi sul banco degli imputati, accusate del male odierno, o di incapacità, di arretratezza, e così via.
La religione ha un ruolo fondamentale nel ripensamento delle categorie della storia, della memoria, della colpa, della giustizia, del perdono, che pongono in contatto direttamente la sfera religiosa con quella morale, sociale e politica. Non si supereranno i conflitti interculturali se non si rileggono e si redimono le letture diverse e antitetiche delle proprie storie religiose, culturali e identitarie. Così, infatti, ha affermato Papa Francesco:
In molte parti del mondo occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia. Nuovo incontro non significa tornare a un momento precedente ai conflitti. Col tempo tutti siamo cambiati. Il dolore e le contrapposizioni ci hanno trasformato. Inoltre, non c’è più spazio per diplomazie vuote, per dissimulazioni, discorsi doppi, occultamenti, buone maniere che nascondono la realtà. Quanti si sono confrontati duramente si parlano a partire dalla verità, chiara e nuda. Hanno bisogno di imparare ad esercitare una memoria penitenziale, capace di assumere il passato per liberare il futuro dalle proprie insoddisfazioni, confusioni e proiezioni. Solo dalla verità storica dei fatti potranno nascere lo sforzo perseverante e duraturo di comprendersi a vicenda e di tentare una nuova sintesi per il bene di tutti. La realtà è che «il processo di pace è quindi un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta».
Questa opera, oltre che globale, è anche profondamente personale, il che costituisce un appello pressante alla conversione per ciascuno di noi, affinché diventiamo tutti «artigiani» di pace:
I processi effettivi di una pace duratura sono anzitutto trasformazioni artigianali operate dai popoli, in cui ogni persona può essere un fermento efficace con il suo stile di vita quotidiana. Le grandi trasformazioni non si costruiscono alla scrivania o nello studio. Dunque, «ognuno svolge un ruolo fondamentale, in un unico progetto creativo, per scrivere una nuova pagina di storia, una pagina piena di speranza, piena di pace, piena di riconciliazione». C’è una «architettura» della pace, nella quale intervengono le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza, però c’è anche un «artigianato» della pace che ci coinvolge tutti
Nuova economia e uomo nuovo
Da quanto detto finora si può dedurre che solo da un uomo nuovo potrà giungere una nuova economia. Se come cristiani, da un lato, bisogna sempre avere dinanzi le parole di Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), dall’altro è indubbio che un cuore trasformato dal Vangelo ha un influsso quanto mai potente anche nelle strutture politiche, sociali ed economiche, di modo che lo stesso Vangelo sia fermento del Regno già in questo mondo, come hanno recentemente ribadito la Congregazione per la Dottrina della Fede e il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale in un documento che, specialmente per voi, è fondamentale approfondire:
Dio viene incontro all’uomo in Gesù Cristo. Egli, coinvolgendoci nell’evento mirabile della sua Resurrezione, «non redime solo la singola persona ma anche le relazioni sociali»[8] ed opera per un nuovo ordine di rapporti sociali, fondati nella Verità e nell’Amore, che sia lievito fecondo di trasformazione della storia. In tal modo, egli anticipa nel corso del tempo quel Regno dei Cieli che è venuto ad annunciare ed inaugurare con la sua persona.
Inoltre, non va mai dimenticato che, per noi cristiani, ciò che è divino e autenticamente cristiano è anche genuinamente umano e viceversa, e quindi il cristianesimo può contribuire grandemente a un «nuovo umanesimo» e a una nuova «civiltà dell’amore», come si afferma nello stesso documento:
La promozione integrale di ciascuna persona, di ogni comunità umana e di tutti gli uomini, è l’orizzonte ultimo di quel bene comune che la Chiesa si propone di realizzare quale «sacramento universale di salvezza». In questa integralità del bene, la cui origine e compimento ultimi sono in Dio, e che pienamente si è rivelata in Gesù Cristo, ricapitolatore di tutte le cose (cf. Ef 1, 10), consiste lo scopo ultimo di ogni attività ecclesiale. Tale bene fiorisce come anticipo di quel regno di Dio che la Chiesa è chiamata ad annunciare ed instaurare in ogni ambito dell’umana intrapresa; ed è frutto peculiare di quella carità che, come via maestra dell’azione ecclesiale, è chiamata ad esprimersi anche in amore sociale, civile e politico. Questo amore «si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore. L’amore per la società e l’impegno per il bene comune sono una forma eminente di carità, che riguarda non solo le relazioni tra gli individui, ma anche «macro-relazioni, rapporti sociali, economici, politici». Per questo la Chiesa ha proposto al mondo l’ideale di una «civiltà dell’amore». L’amore al bene integrale, inseparabilmente dall’amore per la verità, è la chiave di un autentico sviluppo.
Ciò significa, inoltre, che abbiamo una solida base comune con tutti gli «uomini di buona volontà», indipendentemente dalla loro fede religiosa, e che siamo tutti chiamati a «riparare» quella casa comune che è il mondo. Questo impegno comune universale è apparso quanto mai chiaro in questo lungo «inverno» della pandemia, che tutti speriamo possa essere il prodromo di una nuova «primavera», di un great reset. Bisogna, tuttavia, scansare ogni equivoco: il great reset, lungi dall’essere un oscuro progetto di pochi, per noi cristiani è la conversione, il che significa ritornare a Dio e all’uomo e alla donna, ai nostri fratelli, specialmente quelli più deboli e poveri, nella più ferma difesa della vita in tutte le sue forme. In questo tempo di pandemia, quindi, ci siamo resi conto più che mai di non poter vivere come «monadi», anche dal punto di vista economico, come ha affermato Papa Francesco:
Ogni aspetto della vita sociale, politica ed economica trova il suo compimento quando si pone al servizio del bene comune, ossia dell’«insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente». Pertanto, i nostri piani e sforzi devono sempre tenere conto degli effetti sull’intera famiglia umana, ponderando le conseguenze per il momento presente e per le generazioni future. Quanto ciò sia vero e attuale ce lo mostra la pandemia del Covid-19, davanti alla quale «ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme», perché «nessuno si salva da solo» e nessuno Stato nazionale isolato può assicurare il bene comune della propria popolazione.
Facciamo sì che non resti inascoltato l’appello di Papa Francesco a «mettere in atto un modello economico nuovo, frutto di una cultura della comunione, basato sulla fraternità e sull’equità». Tutto ciò è possibile solo alla luce di una nuova antropologia:
Senza un’adeguata visione dell’uomo non è possibile fondare né un’etica né una prassi all’altezza della sua dignità e di un bene che sia realmente comune. Di fatto, per quanto si proclami neutrale o avulsa da ogni concezione di fondo, ogni azione umana - anche in ambito economico - implica comunque una comprensione dell’uomo e del mondo, che rivela la sua positività o meno attraverso gli effetti e lo sviluppo che produce.
Papa Francesco, specialmente nelle sue due encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, non a caso entrambe ispirate a S. Francesco, ha voluto criticare il «paradigma tecnocratico» che intende dominare anche l’economia, tanto che questa sia pensata solo «in funzione del profitto», senza alcun pensiero circa le conseguenze negative sulla persona umana. L’economia si riduce talvolta mera finanza o mercato che «soffoca l’economia reale» e che tuttavia non può garantire lo sviluppo umano integrale, da noi sopra menzionato, e l’inclusione sociale. L’economia così pensata diviene disumanizzante e impedisce ai più poveri di accedere alle risorse di base. Secondo tale aberrante modello, «aprirsi al mondo» significherebbe solamente aprirsi agli interessi stranieri o alla libertà di un capitalismo disumano che investe senza nessun vincolo di bene comune con gli altri Paesi, fino a divenire un’economia globale che si disinteressa dello stesso bene comune e che «non ci rende fratelli», ma uomini «più soli che mai, in un «mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza». Si crede spesso purtroppo nel «dogma di fede neoliberale», secondo cui il mercato, da solo, risolverebbe tutto. Se, da una parte, è necessario che la politica favorisca un’economia che promuova «la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale», dall’altra si deplora «la speculazione finanziaria con il guadagno facile» che «continua a fare strage». In realtà, «la fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato» e che «oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno».
Non si deve credere, pertanto, che «ogni acquisto di potenza sia semplicemente progresso, accrescimento di sicurezza, di utilità, di benessere, di forza vitale, di pienezza di valori come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia». Al contrario, l’immensa crescita tecnologica deve essere accompagnata dallo sviluppo dell’uomo, quanto alla sua responsabilità, ai suoi valori e alla sua coscienza, giacché egli non è autonomo in senso assoluto e rischia di essere «nudo ed esposto di fronte al suo stesso potere che continua a crescere, senza avere gli strumenti per controllarlo». Così, l’economia diventerà ingiusta se mancheranno all’uomo «un’etica adeguatamente solida, una cultura e una spiritualità che realmente gli diano un limite e lo contengano entro un lucido dominio di sé».
Conclusione
Possiamo così concludere dicendo che, in un mondo globalizzato e che cambia sempre più rapidamente, è tempo non di restauri, ma di ricominciare da capo, dalle fondamenta. È indispensabile, perché questo avvenga, recuperare lo spazio della fiducia. L’eredità che abbiamo ricevuto porta in sé una forza intrinseca, la forza umile e tenace di un seme. E tale fiducia non nasce da una sicurezza umana. La fiducia nasce solo dalla coscienza di una salvezza sperimentata, dalla gioia di avere trovato un tesoro.
Non si tratta allora di ricostruire mura che separano, ricreare una distanza tra noi e il mondo, ma saper cogliere la realtà del mondo come un’istanza che interpella noi oggi come nel passato aveva fatto con i nostri padri, che interpella la nostra fede. Il mondo si fa sempre più complesso, e potremmo dire che ogni sfaccettatura di questa complessità arriva a noi come una domanda. Vi sono nuove domande, e questo ci permette di interrogare la nostra fede in modo nuovo, di estrarre dal tesoro del Vangelo cose nuove e cose antiche (Mt 13,52). Un dialogo con il mondo che abbia le sue radici nel nostro personale e comunitario dialogo con il Signore. Non c’è nulla, dell’esperienza umana, che non possa essere illuminata e valorizzata dall’esperienza della fede. E questo è esattamente il nostro compito, e lo possiamo fare solo noi. Allora accadrà una cosa nuova, un uomo nuovo, un’economia nuova: che ciò che abbiamo riguadagnato, attraverso questo processo di incarnazione della propria fede nella storia, non sarà più solo nostro, solo mio, solo tuo, ma sarà per tutti, sarà patrimonio e dono per tutti.
Abstract
le sfide ad essa correlate, intende, alla luce della dottrina sociale della Chiesa e del magistero degli ultimi Papi e in particolare di Papa Francesco, sviluppare i temi, tra essi strettamente correlati, della fede – con particolare attenzione allo «sviluppo umano integrale» –, della pace e della fraternità universale – soprattutto nel contesto «caldo» del Medio Oriente in cui si avverte la necessità di un dialogo interreligioso e interculturale –, dell’urgenza, invocata dall’attuale Pontefice, di una nuova economia, basata su un uomo nuovo in cui il cristiano riconosce i tratti del Nuovo Adamo, Cristo.