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Mons. Pierbattista Pizzaballa al Sinodo: "I giovani sono parte della Chiesa. Non sono “qualcosa” da ammaestrare"

ROMA – Abbiamo incontrato a Roma Mons. Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, da inizio ottobre impegnato nel Sinodo sui giovani svolgentesi in Vaticano. L’incontro avvenuto giovedì 25 ottobre, ha rappresentato l’occasione per fare il punto sui lavori sinodali che vedono impegnati i vescovi di tutto il mondo attorno al delicato tema dei giovani.

A una traversa di via della Conciliazione, a due passi da San Pietro, incontriamo Mons. Pizzaballa, che con entusiasmo e disponibilità risponde alle nostre domande sul Sinodo e sul contributo che la chiesa di Terra Santa, attraverso la sua presenza, sta avendo nella discussione.

Mons. Pizzaballa, prima di addentrarci sullo stato dei lavori del Sinodo, può farci una panoramica sulla condizione dei giovani di Terra Santa?

I giovani di Terra Santa non sono diversi dai giovani del resto del mondo. Soprattutto dal punto di vista umano. Sono pieni di attese, di progetti, di sogni. Hanno anche naturalmente un po’ di frustrazione, un po’ di delusione, un po’ di rabbia, tipico del mondo giovanile. Poi, ai nostri giovani di Terra Santa dobbiamo aggiungere un contesto sociale, politico e religioso complesso, dove la questione palestinese è all’ordine del giorno, con prospettive sociali molto difficili per il lavoro, per le famiglie. Però nel Sinodo ho notato che due terzi, se non di più, dei vescovi, hanno detto la stessa cosa. Dall’Africa, all’Asia, all’America latina, ci sono giovani che sono pieni di vita, vogliono cambiare il mondo ma si trovano di fronte ad una situazione sociale estremamente povera e frustrante anche dal punto di vista politico.

Cosa ci dice invece riguardo alla differenza tra le problematiche dei nostri giovani (quelli di Terra Santa) e i giovani europei?

L’Europa ha dinamiche diverse. Per tutti ci sono problemi sociali ma non della gravità che abbiamo noi (in Terra Santa, ndr). In Europa si deve lavorare soprattutto nell’ambito della trasmissione della fede, che non c’è più. Mentre invece in Medioriente la fede è ancora trasmessa dalle famiglie, ma è ancora una fede limitata a un contesto religioso e sociale che poi – e questa è la sfida che si ha coi giovani – deve diventare esperienza.

Da suoi precedenti interventi pubblici e interviste sono emersi dei punti chiave in tema di giovani, soprattutto riguardo l’urgenza di diventare adulti e l’incomunicabilità tra le istanze dei giovani e le risposte della Chiesa. Può parlarcene?

Si è parlato dei giovani. Ma i giovani non sono un mondo a sé. C’è un aspetto intergenerazionale, senz’altro, ma la prospettiva dei giovani è diventare adulti. Poi si può restare giovani nel cuore, si può essere giovanili; ma poi si deve diventare adulti, adulti anche nella fede. I conflitti intergenerazionali sono tipici di tutti i tempi e fanno parte delle dinamiche di crescita. Ma non dobbiamo dimenticare che non dobbiamo creare uno spirito “giovanilista”. Il compito dei giovani è quello di crescere per diventare adulti. E’ la nostra vita.

Si è constatato il fatto che rispetto a due o tre generazioni fa, quando le famiglie avevano un ruolo fondamentale nella trasmissione della fede, non è più la famiglia il canale, l’ambiente in cui si realizza tale trasmissione. Come può oggi la Chiesa surrogare le famiglie in questo importante compito?

Credo che ci sia solo una via: la testimonianza. I giovani non vogliono sentire lezioni o catechismo. Che servono, sia chiaro. Ma vogliono incontrare testimoni. Ancora oggi puoi incontrare persone meravigliose e dopo che le hai incontrate dici: “veramente Gesù è risorto, ho incontrato una persona che è piena di vita”. Come comunità, comunità cristiana, facciamo più fatica a trasmettere questa esperienza. E credo che la sfida sia questa. Stare coi giovani, e ascoltare anche le loro attese, credo ci aiuti a trovare almeno il modo, la forma, per trasmettere questa esperienza come comunità.

Si è parlato di “clericalismo”

E’ uno dei temi che è emerso nel Sinodo e di cui si parla molto. Il clericalismo è una barriera. Clericalismo significa che c’è qualcuno privilegiato che è il prete e gli altri attorno a lui. E invece la preposizione che è emersa molto nel Sinodo è “con”. Quindi non è, da una parte i preti, da una parte la Chiesa, da un’altra parte i giovani. I giovani sono parte della Chiesa. Non sono “qualcosa” da ammaestrare (sorride).

Intervista rilasciata a Filippo De Grazia