Gerusalemme, luogo dell’anima
Una madre che educa e fa crescere
Pubblicazione in occasione della presentazione a Roma del progetto “Global Compact”.
- Introduzione
Di Gerusalemme si parla molto in questo periodo. Predomina, certamente, l’aspetto politico, legato al conflitto Israelo-palestinese e alle varie proposte che periodicamente vengono presentate sul futuro della città da tutti amata e allo stesso tempo, e forse proprio per questo, contesa.
Non mancano gli sguardi della comunità internazionale sulla Città Santa. Le iniziative in tutto il mondo legate a Gerusalemme sono innumerevoli, sia dal punto di vista politico che quello religioso. Sono tantissimi gli inviti a parlare ai vari panel e alle discussioni pubbliche su questo tema, segno dell’interesse crescente. Non mancano, naturalmente, i riferimenti religiosi, inevitabili quando si parla di Gerusalemme.
Il fenomeno delle migrazioni di popoli, inoltre, e il fatto che in tutto il mondo popolazioni con culture e fedi differenti siano sempre più mischiate e connesse tra loro rende sempre più evidente la necessità di approfondire e dare contenuto al dialogo interreligioso. I conflitti a sfondo religioso attualmente in corso nel mondo, rendono ancora più urgente tale necessità.
E proprio per questo, parlando di dialogo interreligioso e di incontro tra popoli, non si può non pensare a Gerusalemme, la città tre volte santa, cuore della rivelazione per credenti ebrei, cristiani e musulmani. Abitata da israeliani e palestinesi, amata, voluta e contesa da entrambi.
A Gerusalemme gli argomenti religiosi si intrecciano con le prospettive politiche di israeliani e palestinesi. Le loro strategie politiche legate alla Città Santa, infatti, hanno come fondamento le loro rispettive narrative religiose sulla città.
Il legame religioso di ebrei e musulmani con la città, in altre parole, viene spesso tradotto dalle rispettive parti politiche – israeliana e palestinese - in scelte precise, legate alla vita concreta della città, ai suoi confini e soprattutto ai suoi Luoghi Santi. Ciascuno vuole esprimere anche politicamente la propria sovranità sulla città, o almeno su una porzione di essa, specie nella parte dove si trovano i propri Luoghi Santi, testimoni della propria storia di fede, che però è anche storia di popolo e identità nazionale. Proprio per questo le tensioni politiche e religiose nella città sono sempre molto alte, le sensibilità delicate e fragili, le reazioni esagerate. Toccare un Luogo, spostare i confini, affermare la propria sovranità su una parte della città, è visto come una necessità; è un modo per fissare nel territorio i propri riferimenti religiosi che, come dicevamo, sono anche riferimenti nazionali e quindi politici. L’affermazione della propria storia, tuttavia, espressa concretamente nel territorio da una parte, viene anche vista come una negazione per l’altra, la quale si sente defraudata a sua volta della propria storia e della sua identità nazionale. In altre parole, l’affermazione di uno viene vista come la negazione dell’altro, un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.
Rende ancora più complicata la situazione il fatto che in alcuni Luoghi Santi convergono le narrative religiose differenti, o addirittura antitetiche, di ebrei, musulmani e, in alcuni casi, anche cristiani. Basti pensare alla Spianata del Tempio, o Haram Esh-Sharif. Due nomi differenti per lo stesso Luogo, sul quale sorgeva l’antico tempio di Salomone e poi di Erode, il luogo più sacro per gli ebrei. Ma allo stesso tempo è anche il luogo più sacro, dopo Mecca e Medina, per i musulmani i quali fanno memoria della salita al cielo del profeta Maometto, sede di una delle più importanti e antiche Moschee esistenti al mondo. O pensiamo all’attuale Monte Sion, dove convivono tre narrative differenti nello stesso luogo: il cenotafio del re Davide, conosciuto come Tomba del re Davide per gli ebrei, il cenacolo cristiano che conserva la memoria dell’Ultima cena e della lavanda dei piedi, e il ricordo del profeta Dahood (il Re Davide) per i musulmani. L’intreccio, dunque, di sovranità politica, di narrative religiose differenti, di diverse identità nazionali, di Luoghi Santi accavallati l’uno sull’altro rende la vita della città assai complicata. Gli equilibri sono fragilissimi, sempre sul punto di rompersi.
Rispetto a tutto ciò, i cristiani hanno un approccio differente. La prospettiva cristiana, infatti, mantiene ben distinta la sfera religiosa da quella politica. Non c’è una rivendicazione di sovranità politica cristiana sulla città. I cristiani palestinesi sono solidali con i palestinesi e si identificano con la prospettiva palestinese. A loro volta, i cristiani israeliani tendono a condividere la prospettiva del loro Paese.
I cristiani in quanto cristiani hanno solamente una rivendicazione religiosa e spirituale sulla città. Il fatto che politicamente i cristiani si identifichino con il proprio popolo di appartenenza, infatti, non significa che non vi sia un interesse cristiano sulla città. In altre parole, non spetta ai credenti in Cristo stabilire chi, come e a quali condizioni debba governare sulla città; ma è certamente nostro diritto e dovere esprimere un giudizio sul carattere che la città deve mantenere: universale, multiculturale, aperto e solidale, patrimonio comune e non monopolio esclusivo di qualcuno. Insieme a quella ebraica e musulmana, vi è dunque anche una narrativa cristiana sulla città, nella quale si trovano anche i più importanti Luoghi Santi cristiani, testimoni degli eventi principali della vita di Gesù. E proprio a partire da questo, da parte dei cristiani scaturisce un richiamo verso la politica e verso i due popoli che abitano la città a rispettare il suo carattere aperto e multiforme. La comunità cristiana non cessa anche di richiamare la comunità internazionale a intervenire e farsi garante di tale carattere aperto e universale. Riteniamo, infatti, che Gerusalemme, per la sua storia e per l’alto valore simbolico che essa ricopre nella vita di miliardi di credenti nel mondo, debba essere considerata patrimonio di tutti e che, quindi, si debbano trovare formule nella gestione di questa città che rispettino questo carattere sacro e universale.
Non è questa la sede per entrare in disquisizioni storiche e religiose riguardo a Gerusalemme. Questa breve e assai superficiale introduzione è solo per cercare di far intuire quale sia l’enorme complessità esistente nella Città Santa e quanto sia complicato orientarsi in questo intricato ginepraio di storie, religioni, sentimenti, politica e nazioni.
Mi è stato chiesto di presentare brevemente il ruolo storico e profetico della città e di mostrare come il dialogo, nonostante tutto e pur fra mille difficoltà, continui ad essere una realtà che esiste ed è vitale, e che però va cercata. È il tesoro nascosto che si scopre solo se lo si cerca.
Inizialmente proverò, dunque, a spiegare perché la città sia così importante per i credenti delle tre fedi monoteiste. Sarà una presentazione per sommi capi, il cui intento è solo quello di mostrare l’attaccamento delle tre fedi e dei due popoli alla città. Cercherò infine di illustrare le modalità concrete di convivenza e di dialogo degli abitanti di questa città piena di affascinanti contraddizioni.
- Gerusalemme tra storia e profezia
Ebraismo, Cristianesimo e Islam hanno due elementi comuni: la fede in un Dio unico e la Sua rivelazione; l'unico Dio, Padre di tutti, si è rivelato all’uomo. Seppur espressa in forme diverse, i fedeli delle tre religioni abramitiche credono che l’unico Dio abbia parlato, si sia rivelato e che questa rivelazione sia storica e verificabile.
Naturalmente ciascuna di queste affermazioni può essere ragionevolmente sottoposta a serie critiche. Ma, al di là delle varie articolate valutazioni su ciascuna fede e delle enormi ed evidenti differenze esistenti tra loro, in questa sede a noi interessa solo sottolineare come per tutte e tre le religioni monoteiste, la fede sia legata ad una rivelazione, ad una storia e a un libro. Per ebrei e cristiani inizia con Abramo e percorre tutto l’Antico Testamento. Per noi cristiani la storia continua con Gesù e la primitiva comunità cristiana e i suoi scritti. Nell’Islam è legata al profeta Maometto, alla rivelazione che egli ha ricevuto, raccolta nel Corano.
Ma, se vi è una storia, deve esserci anche una geografia. Se c’è un evento, deve esserci anche un luogo. Senza luogo, non c’è evento. Un’evidenza banale, forse, ma che è alla base della vita reale e della struttura concreta di tutte e tre le fedi monoteiste.
Per questa ragione i musulmani si recano almeno una volta nella vita alla Mecca. Per questo – per restare a Gerusalemme – il pellegrinaggio e il legame con la spianata delle moschee, Haram Esh-Sharif, è così importante per loro.
Per questa stessa ragione noi cristiani abbiamo cura dei Luoghi Santi che sono stati testimoni della rivelazione biblica e in particolare della vita di Gesù. Questi due elementi (storia-geografia) sono necessari l’uno all’altro. Togliere uno dei due elementi, significa negare l’evento stesso. È sempre stato essenziale per la Chiesa non solo guardare a Gerusalemme come ad un richiamo spirituale, ma rimanere in essa anche fisicamente. È caratteristico per la vita della Chiesa dire: “Cristo è risorto, non è qui, venite a vedere il Luogo dove era sepolto” (Mt 28:6).
Fin dal principio la comunità cristiana si è ritrovata nei Luoghi per fare memoria. Il fare memoria non è un semplice richiamo di un evento passato. Quell’evento è ciò che ancora oggi alimenta la vita del cristiano. La resurrezione di Cristo è il fondamento attuale della nostra vita di fede. Ancora oggi abbiamo bisogno di correre per vedere il sepolcro vuoto di Cristo, un modo per fare esperienza dell’incontro con il risorto. Per questo è per noi necessario stare in quei Luoghi, per custodire l’attualità di quell’evento. Gerusalemme è il cuore di questo principio.
Discorso simile vale per il popolo di Israele.
Nell’ebraismo, addirittura, non si può distinguere tra fede in Dio, appartenenza al popolo e legame con la Terra. Nell’ebraismo, la Terra e in particolare Gerusalemme, è sempre stata una parte essenziale dell’esperienza di fede, anche durante i duemila anni di esilio. Non vi è preghiera senza un richiamo alla Città Santa. Dopo la nascita dello Stato di Israele questo legame spirituale e storico è diventato anche politico. Lo Stato di Israele, la patria per gli ebrei di tutto il mondo, è la casa che deve proteggere e custodire l’unità del popolo dell’Alleanza, la sua sicurezza e la sua identità.
Tra i compiti, dunque, dello Stato ebraico vi è quello di esprimere concretamente, nelle forme possibili oggi, il legame con la terra e soprattutto con i Luoghi Santi della propria identità religiosa e nazionale. Più avanti vedremo anche le conseguenze che tutto ciò comporta sul piano politico.
Non si tratta, allora, di devozionismo sofisticato, ma di una necessità insita nella natura stessa delle tre fedi. L’esperienza di fede non può rimanere fissata solo nella memoria ma, perché possa anche essere trasmessa alle generazioni future, ha bisogno di essere ricordata negli scritti e nelle pietre: “Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo». Ebbe timore e disse: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo». La mattina Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel” (Gen. 28,16–19).
Se la Terra Santa in generale è il luogo della rivelazione, ed esprime concretamente il legame tra Dio e l’uomo, Gerusalemme ne è il cuore. È lì che le promesse si sono concentrate. Per questo in essa confluiscono le attese, i desideri e le aspirazioni di tutti i credenti.
Ciò che è accaduto in Gerusalemme, lungo tutta la storia della rivelazione ed in particolare - per noi credenti cristiani - gli eventi della vita di Gesù, ci parla del desiderio di riconciliazione tra Dio e l’uomo e dell’unità del genere umano (basti pensare alla Pentecoste cristiana). Per questo, per tutti i credenti e in particolare per i cristiani, Gerusalemme è il Luogo-simbolo dell’anelito alla riconciliazione e all’unità. Per questo, conflitto e divisioni a Gerusalemme suscitano più sconcerto che in qualsiasi altra parte del mondo.
Brevemente, per molti secoli, soprattutto dopo il periodo crociato, quando Gerusalemme non era più politicamente al centro di alcun contenzioso politico, le contese si limitavano all’ambito religioso. Vi erano contese tra le tre fedi e, in ambito cristiano, tra le diverse chiese cristiane, in particolare tra la chiesa ortodossa e quella cattolica. Non si discuteva di sovranità politica sulla città, ma di sovranità sui Luoghi Santi. La vita della città ruotava intorno ai Luoghi Santi. L’attività religiosa nei Luoghi stabiliva il ritmo di vita della città e il suo respiro.
Gli ebrei cercavano di avere accesso quanto più possibile al Muro Occidentale, che non era garantito facilmente dalle autorità islamiche del tempo. I cristiani, dopo la caduta del regno latino crociato, cercavano di recuperare i Luoghi Santi della redenzione e di ricostruire un tessuto ecclesiale minimale. Allo stesso tempo iniziarono in quel periodo le lotte tra le diverse Chiese per assicurarsi il possesso esclusivo dei Luoghi Santi che man mano venivano recuperati. Lotte che hanno portato all’attuale situazione di divisione in alcuni dei principali Luoghi Santi cristiani. Queste tensioni sono ormai parte del passato e le relazioni sono oggi cordiali. Ma queste situazioni hanno purtroppo lasciato nella memoria della città un’eredità fatta anche di sospetto, di diritti acquisiti, di situazioni obsolete e difficilmente modificabili e che sono sotto gli occhi di ogni pellegrino e visitatore che giunga a Gerusalemme.
I musulmani, sotto il lungo periodo ottomano, hanno avuto facile gioco nella vita religiosa della città e hanno potuto consolidare enormemente il loro legame storico, culturale e religioso con essa. Il loro legame con la città inizia già con il sorgere dell’Islam e si è via via consolidato, soprattutto – come dicevamo – nel periodo turco.
Ma erano le istituzioni religiose ad essere in contenzioso tra loro. Gli abitanti di Gerusalemme, ebrei, cristiani e musulmani, arabi e non, erano accomunati dalla medesima vita nella città e le relazioni tra loro erano determinate dal carattere della persona più che dalle diverse appartenenze religiose. Potevamo avere tensioni o amicizie, incontri o scontri, ma per via delle attitudini personali. La politica non c’entrava più di tanto.
Oggi non è più così. Dal lato loro, le Chiese cristiane sono sempre più vicine tra loro e il contenzioso sui Luoghi Santi è limitato a poche e specifiche situazioni, che però non influiscono molto nella vita reale delle comunità cristiane, oggi tutte mischiate tra loro, per via dei matrimoni misti. I cristiani in quanto cristiani, tuttavia, non sono parte diretta del contenzioso politico sulla città. Questo è appannaggio di ebrei e musulmani. Come dicevamo inizialmente, l’attaccamento ai Luoghi e alla Città Santa legato a profonde motivazioni religiose, trova oggi espressione anche nelle scelte politiche delle autorità dei rispettivi popoli, israeliano e palestinese, che sono per questa ragione fonte di perenni tensioni politiche e sociali.
I palestinesi hanno tutto sommato (se escludiamo le frange più estremiste) una visione abbastanza unitaria su Gerusalemme.
La visione palestinese di Gerusalemme è quella di una città condivisa, capitale dei due stati e delle tre fedi monoteiste. Per i palestinesi è fondamentale avere Gerusalemme come capitale. Essi considerano la Città Vecchia, sede di quasi tutti i Luoghi Santi, un unicum da preservare nella sua integrità. Anche se oggi tutto ciò sembra ormai retaggio del passato e non più attuale, a causa delle recenti iniziative politiche internazionali e dei fatti creati sul territorio che le fanno sembrare superate, essi si richiamano ancora alle varie risoluzioni internazionali dell’ONU, ai principi della Conferenza di Madrid e alle varie iniziative della Lega araba. La dirigenza palestinese continua a rivendicare questi diritti e a chiedere il ritiro israeliano dalla parte araba della città.
Gli israeliani, invece, considerano Gerusalemme la loro capitale, unica e indivisibile e cercano di esprimere questo concetto manifestando sempre più la loro sovranità sull’intera città. I legami tra l’ebraismo e Gerusalemme sono unici e forti, come abbiamo già detto e questo va riconosciuto. Se non possiamo pensare ad una entità palestinese senza Gerusalemme, lo stesso si deve dire per Israele. Dal punto di vista religioso, non c’è ebraismo senza Gerusalemme. Ad ogni modo, vi sono all’interno della dirigenza israeliana differenze di vedute sul futuro della città, in particolare su quale tipo di condivisione di Gerusalemme sia possibile con i palestinesi. Non spetta a noi in questa sede entrare nei vari particolari del contenzioso, che non sono nemmeno di nostra competenza. Queste diverse posizioni, tuttavia, mostrano chiaramente che la situazione attuale è di conflitto.
Israeliani e palestinesi, anche se oggi questo non accade, con la collaborazione di tutti coloro che possono aiutarli, dovrebbero raggiungere un accordo che corrisponda in qualche modo alle loro particolari aspirazioni legittime e ragionevoli e rispetti dei principi di giustizia.
La soluzione di una disputa territoriale da sola, inoltre, non è sufficiente per Gerusalemme, proprio perché Gerusalemme è una realtà senza pari: fa parte del patrimonio di tutto il mondo. E il mondo intero nel passato ha dimostrato di esserne pienamente consapevole quando, ad esempio, attraverso risoluzioni delle Nazioni Unite ha cercato di difendere quel patrimonio. Oggi la comunità internazionale è purtroppo ormai quasi del tutto assente.
Le caratteristiche storiche e materiali della città, nonché le sue caratteristiche religiose e culturali, devono essere preservate; deve esserci uguaglianza di diritti e di trattamento per coloro che appartengono alle comunità delle tre religioni presenti nella Città, nel contesto della libertà delle attività spirituali, culturali, civiche ed economiche; i Luoghi santi situati nella città devono essere preservati e devono essere tutelati i diritti della libertà di religione, di culto e di accesso, sia per i residenti che per i pellegrini, provenienti sia dalla Terra Santa stessa che da altre parti del mondo.
Nonostante ora sembri impossibile che questo si realizzi nel breve periodo, è evidente che prima o poi le due parti dovranno incontrarsi e definire questo tema, che resta l’argomento più importante di tutti. Ed è evidente che le due parti dovranno trovare dei criteri comuni di riferimento per la definizione di un accordo. Ed è su questo che a noi preme, come cristiani, di dire una parola. Non essendoci una rivendicazione politica cristiana sulla città, infatti, corriamo il rischio di non essere presi in considerazione e di non avere voce.
Dal nostro punto di vista, vogliamo insistere sulla necessità di preservare il carattere cristiano della città come uno degli elementi costitutivi della sua configurazione universale. Gerusalemme perderebbe la sua universalità, se non mantenesse visibile e pubblico anche il suo carattere cristiano.
Per “carattere cristiano” si intende la possibilità di pregare pubblicamente in questa città, dove non esiste il pudore europeo. I musulmani pregano pubblicamente. Gli ebrei si fermano il sabato. I cristiani devono poter fare lo stesso secondo le loro differenti tradizioni. Si intende inoltre: sostenere le diverse istituzioni cristiane (scuole, ospedali, ecc.); sostenere la presenza cristiana e il suo naturale sviluppo demografico; preservare i legami naturali tra Gerusalemme e le città vicine. Senza questi legami con le città vicine, ed in particolare con Betlemme, sarebbe difficile sostenere le diverse istituzioni cristiane della città.
L'identità di Gerusalemme, infatti, include un carattere sacro che appartiene non solo ai singoli siti o monumenti, come se questi potessero essere separati gli uni dagli altri o isolati dalle rispettive comunità. Il carattere sacro coinvolge Gerusalemme nella sua interezza, i suoi Luoghi Santi e le sue comunità con le loro scuole, ospedali, attività culturali, sociali ed economiche. Israeliani e Palestinesi, nella ricerca di una soluzione politica del loro conflitto su Gerusalemme, non possono trascurare il fatto che la Città abbia aspetti che vanno ben oltre i loro legittimi interessi nazionali. Pertanto, devono prendere in considerazione questi aspetti nella ricerca e nel raggiungimento di una soluzione politica e territoriale duratura.
In particolare, le due parti dovranno assicurarsi che l’attuale carattere universale di Gerusalemme venga preservato e che Gerusalemme continui ad essere il Luogo dove ebrei, musulmani e cristiani continuano a incrociarsi per le vie della città santa, ciascuno con il suo intento e le sue tradizioni, così unicamente intrecciate le une alle altre. Non basta preservare il carattere storico della città attraverso le sue pietre, ma è anche necessario preservare l’intreccio unico di relazioni di fedi, popoli e culture, senza esclusivismi. La natura di Gerusalemme è includere, non escludere. Questa è anche la sua vocazione profetica, il suo richiamo universale.
Lo ha espresso molto bene Papa Benedetto, nella sua omelia nella Valle di Giosafat, che riporto quasi interamente:
“Riuniti sotto le mura di questa città, sacra ai seguaci delle tre grandi religioni, come possiamo non rivolgere i nostri pensieri alla universale vocazione di Gerusalemme? Annunciata dai profeti, questa vocazione appare anche come un fatto indiscutibile, una realtà irrevocabile fondata nella storia complessa di questa città e del suo popolo. Ebrei, Musulmani e Cristiani qualificano insieme questa città come loro patria spirituale. Quanto bisogna ancora fare per renderla veramente una "città della pace" per tutti i popoli, dove tutti possono venire in pellegrinaggio alla ricerca di Dio, e per ascoltarne la voce, “una voce che parla di pace”! ( cf. Sl 85,8).
Gerusalemme in realtà è sempre stata una città nelle cui vie risuonano lingue diverse, le cui pietre sono calpestate da popoli di ogni razza e lingua, le cui mura sono un simbolo della provvida cura di Dio per l’intera famiglia umana. Come un microcosmo del nostro mondo globalizzato, questa Città, se deve vivere la sua vocazione universale, deve essere un luogo che insegna l'universalità, il rispetto per gli altri, il dialogo e la vicendevole comprensione; un luogo dove il pregiudizio, l’ignoranza e la paura che li alimenta, siano superati dall’onestà, dall’integrità e dalla ricerca della pace. Non dovrebbe esservi posto tra queste mura per la chiusura, la discriminazione, la violenza e l’ingiustizia. I credenti in un Dio di misericordia – si qualifichino essi Ebrei, Cristiani o Musulmani –, devono essere i primi a promuovere questa cultura della riconciliazione e della pace, per quanto faticoso e lento possa essere il processo e gravoso il peso dei ricordi passati”.
Sempre nella stessa omelia, papa Benedetto aggiungeva:
“Questa è la speranza, questa la visione che spinge tutti coloro che amano questa Gerusalemme terrestre a vederla come una profezia e una promessa di quella universale riconciliazione e pace che Dio desidera per tutta l’umana famiglia. Purtroppo, sotto le mura di questa stessa Città, noi siamo anche portati a considerare quanto lontano sia il nostro mondo dal compimento di quella profezia e promessa. In questa Santa Città dove la vita ha sconfitto la morte, dove lo Spirito è stato infuso come primo frutto della nuova creazione, la speranza continua a combattere la disperazione, la frustrazione e il cinismo, mentre la pace, che è dono e chiamata di Dio, continua ad essere minacciata dall’egoismo, dal conflitto, dalla divisione e dal peso delle passate offese. Per questa ragione, la comunità cristiana in questa Città che ha visto la risurrezione di Cristo e l’effusione dello Spirito deve fare tutto il possibile per conservare la speranza donata dal Vangelo, tenendo in gran conto il pegno della vittoria definitiva di Cristo sul peccato e sulla morte, testimoniando la forza del perdono e manifestando la natura più profonda della Chiesa quale segno e sacramento di una umanità riconciliata, rinnovata e resa una in Cristo, il nuovo Adamo” (Papa Benedetto, Omelia nella Valle di Giosafat, 12 maggio 2009).
Ogni chiusura, dunque, vissuta a Gerusalemme è una ferita che si provoca alla città e a noi stessi, in una osmosi quasi immediata. Ma è anche una ferita per la vita del mondo, di cui Gerusalemme è il cuore.
Non è una città facile, Gerusalemme. È una madre che educa e fa crescere, come una maestra esigente; che ci invita ad andare oltre le belle idee, le facili parole. La nostra è una fede incarnata, il nostro Gesù è un Uomo che qui è nato in un preciso momento storico, è vissuto, ha chiamato i suoi amici a condividere la propria vita, ha riso e pianto, ha percorso sentieri e strade. Se si dimentica l’Incarnazione, non si entra nell’anima di questa città. La si idealizza e si finisce per patirne scandalo.
Se la città non teme di mostrarsi a noi con le sue contraddizioni, anche noi dobbiamo conoscere, accettare e vincere le nostre, per renderci liberi di aderire al sogno che essa ci propone e che sta scritto nel suo nome: la pace. A volte accettare l’amore, accettare la pace, saper ricevere un dono è più difficile che darlo. In questa “nudità”, o se vogliamo, nell’accettazione sincera di ogni nostra contraddizione, sta il segreto per vivere in empatia con lo spirito per Gerusalemme, lo star bene, il sentirsi amati da questa straordinaria città. “Il Signore scriverà sul libro dei popoli: Là costui è nato. E danzando canteranno: In te le mie radici” (Sl 87).
Infine, non si può stare a Gerusalemme, senza pregare. La preghiera è ciò che accomuna tutti i suoi abitanti e nella quale tutti si ritrovano. Ecco un’attività dello spirito che Gerusalemme rende connaturale. Sarà la bellezza della città che tiene fissa la mente al Creatore della bellezza; sarà che i Luoghi santi sono davvero tanti in un perimetro che si percorre comodamente in una sola giornata, sarà il richiamo della fede di tanta gente - soprattutto la fede dei piccoli e dei poveri -, o la concentrazione di tanti religiosi nella varietà delle loro appartenenze, nel folclore dei loro abiti. Sarà, soprattutto, lo scoprire che la preghiera non è caratteristica dei cristiani, ma dell’uomo, e che gli ebrei pregano senza condizionamenti di sorta per le strade, e i musulmani fanno lo stesso nei loro negozi lungo il suk; e che la suora che sgrana il rosario non prega con più intensità dell’ebreo che mormora camminando avvolto nel tallit, o del musulmano che fa scorrere il suo masbaha ricordando i nomi e le virtù di Allah, seduto o camminando per strada. Sarà perché la sirena che annuncia lo Shabbat diventa un suono atteso, sacro, e la città si trasforma quietandosi di ogni affanno umano; o perché il Muezzin interrompe la notte con il suo primo richiamo; o perché il suono familiare delle campane la domenica mattina arriva portato dal vento a ricordare il nostro giorno sacro: saranno tutte queste cose insieme, ma vien facile pregare a Gerusalemme. È una corrente che si segue, che ci assorbe, che ci fa andare al passo con la città delle fedi, la città di Dio. Allora pregare diventa entrare in relazione sì con il Signore, ma anche con Gerusalemme e sentire gratitudine per questa voglia di preghiera che essa ci regala.
Città dell’accoglienza e della tolleranza, Gerusalemme sembra voluta apposta per essere un luogo di libertà dove questo atto così intimo, così personale come la preghiera, diventa anche atto pubblico, condivisibile e partecipato con gli altri. Certo è che la devozione della povera gente, l’intensità della loro preghiera, le lacrime che segnano i volti di tante persone nella basilica della Risurrezione, sono per molti un incontro vivo e vivificante con la bellezza della preghiera.
Gerusalemme è anche tutto questo. Sarebbe ingiusto limitarsi, dunque, alla descrizione dei contenziosi religiosi, politici e sociali, senza dire cosa accomuna tutti in questa città complicata.
- Occasione di incontro e dialogo
Passiamo ora ad un altro piano della vita della città. Abbiamo finora parlato di contenziosi, di difficoltà politiche e religiose, di tensioni di diverso genere. Gerusalemme, dunque, la città dalla vocazione universale alla pace e all’incontro tra i popoli, sembrerebbe sia l’emblema del fallimento, il simbolo dello scontro tra le civilizzazioni e le culture.
Ma non è così.
Vi è il piano istituzionale, oggettivamente problematico. Ma vi è poi il piano della vita, dei semplici cittadini, religiosi e non, delle tante persone e associazioni che, nonostante tutto, cercano insieme di mostrare il loro amore e attaccamento alla Città Santa, attraverso iniziative comuni o semplicemente attraverso semplici relazioni di amicizia, che superano i rigidi confini delle appartenenze identitarie e religiose.
Non è questo il momento dei grandi gesti, non è il tempo nel quale attendere dalle istituzioni religiose e politiche capacità di visione e di profezia. Le istituzioni arriveranno, prima o poi, ma nel frattempo bisogna lavorare ed operare laddove le persone sono disposte a mettersi in gioco, a spendersi per ripulire il volto sfigurato della Città Santa attraverso le loro iniziative di dialogo e di incontro, di preghiera e di condivisione.
Vi sono iniziative di carattere più civile e altre di carattere religioso, tutte accomunate dal desiderio di dare espressione concreta all’incontro e al dialogo. Ne citerò solo alcune, a mo’ di esempio.
Tra le iniziative di carattere civile penso ad esempio al Jerusalem Intercultural Center. Composto da israeliani e palestinesi, ebrei, musulmani e cristiani, si occupa di migliorare la vita degli abitanti della città, a prescindere dalle loro appartenenze. Interviene nelle emergenze, quando ci sono, coinvolgendo la popolazione, facilitando incontri, creando volontariato. Insegna l’arabo agli israeliani, soprattutto agli operatori e ai responsabili di uffici pubblici, perché possano meglio comprendere e interagire con il pubblico arabo a tutti i livelli. Cercano di colmare una lacuna spaventosa nella formazione dei ragazzi, cercando di fare conoscere le tradizioni religiose di ciascuna comunità religiosa. Organizzano ovunque visite, incontri, conferenze, concerti. Gerusalemme patrimonio di tutti, non deve essere solo uno slogan, ma espressione concreta nella vita della città. Nonostante i suoi membri abbiano visioni politiche differenti, si ritrovano uniti nel desiderio di fare qualcosa di concreto per la vita della città. Riconoscono di appartenersi l’un l’altro nell’amore a Gerusalemme. La città che essi amano non li ha divisi, dunque, ma al contrario li ha fatti incontrare, apprezzare e anche amare l’un l’altro. In un recente incontro, ad esempio, organizzato dal Centro, ho assistito all’esibizione di un gruppo di giovani cantori israeliani, ebrei religiosi, che hanno aperto la conferenza cantando, in arabo, parti della liturgia cristiana latina, per un pubblico di ebrei e musulmani. Solo a Gerusalemme può accadere questo.
Si devono inoltre ricordare le dodici scuole cristiane della città. È uno dei contributi significativi che la comunità cristiana offre ai suoi concittadini. Sono quasi diecimila gli studenti che passano nelle nostre scuole, in prevalenza musulmani e cristiani, e ai quali è data la possibilità di crescere, studiare e formarsi insieme durante gli importanti anni dell’età evolutiva; è questo il nostro modo di contribuire alla vocazione della città all’incontro. Può sembrare banale, ma laddove tutto porta a creare distinzioni tra le appartenenze, dove i confini identitari sono così forti, studiare e vivere insieme, gomito a gomito, è un modo concreto per educare al rispetto delle differenze.
Se le istituzioni tendono a vedere solo la propria narrativa religiosa e a negare quella altrui, se cioè non si vogliono riconoscere le differenze, il semplice stare insieme a scuola, ciascuno con la sua identità, diventa un gesto significativo. In questo modo, le nostre scuole educano indirettamente ad accogliersi e a rispettarsi reciprocamente ciascuno nella sua identità. Non siamo obbligati a condividere le opinioni, ma possiamo rispettarle. L’amicizia non è costretta dentro i confini della propria identità, ma la supera. È libera.
Le nostre scuole accolgono prevalentemente cristiani e musulmani per motivi linguistici, perché entrambi parlano arabo. Ma vi sono anche scuole bilingue, come la rete di Hand-in-Hand, fondata da un musulmano e un ebreo insieme, dove gli alunni studiano in arabo ed ebraico, con doppio insegnante in ogni classe. E hanno problemi di spazi, perché le richieste superano l’offerta. In questo caso la caratteristica di queste scuole non consiste solo nel permettere che i ragazzi vivano insieme da studenti, ma nel renderli positivamente coscienti dell’esistenza dell’altro, delle sue diversità, educandoli all’accoglienza consapevole e al rispetto.
Vi sono scuole che hanno un linguaggio universale, come le scuole di musica. Insegnanti e studenti ebrei, cristiani e musulmani, si ritrovano per imparare a suonare uno strumento, ma anche a suonare insieme. Fra queste scuole, vi è il Magnificat della Custodia di Terra Santa.
Vi sono poi innumerevoli iniziative di formazione e di informazione organizzate da varie associazioni pubbliche e private. Si incontrano continuamente gruppi di scolaresche ebraiche che incontrano religiosi cristiani e musulmani e visitano chiese e moschee. È bello vedere scolaresche musulmane che fanno visita ai Luoghi Santi cristiani e sono educate a comprendere come quei luoghi siano anche parte della loro identità e della storia della loro città. Ma si vedono anche gruppi di militari israeliani, di pensionati, di imprese e associazioni varie che sono mossi dalla curiosità di conoscere, che non vogliono leggere un libro sui cristiani, sugli ebrei o sui musulmani, ma vogliono incontrarli e ascoltarli.
Vi sono poi altre iniziative di carattere diverso, a me personalmente assai vicine. Ci sono gruppi di giovani e meno giovani che non vogliono limitarsi ad incontri di carattere sociale, storico e culturale. Vogliono capire l’uno le ragioni dell’altro e la sua fede. Sono gruppi che non fanno pubblicità e di cui non si sa nulla pubblicamente e forse per molto tempo sarà ancora così, ma sono numerosi e crescono continuamente.
Sono gruppi che si dedicano alla lettura dei testi sacri. Ebrei israeliani che leggono insieme ai cristiani arabi l’Antico Testamento e lo commentano insieme. Cominciando dai testi meno impegnativi, fino ad arrivare ai testi che parlano di terra, eredità, promesse, alleanza, le cui interpretazioni sono evidentemente differenti e che hanno anche un carattere politico evidente. Ma si legge insieme anche il Nuovo Testamento, si parla di Gesù, si condivide la conoscenza che si ha di lui.
Ho fatto personalmente esperienza di come questi incontri creino legami di amicizia forti e profondi: non solo non creano tensioni e incomprensioni ma, al contrario, aiutano a conoscere se stessi più a fondo. Le domande di amici ebrei sulla figura di Gesù, sul senso della morte e risurrezione, sulla sua personalità, mi hanno aiutato ad approfondire il mio rapporto con Lui, mi hanno fatto riappropriare in maniera nuova della mia fede cristiana.
Vi sono poi altri gruppi, ancora più riservati, sempre di carattere religioso, dove ebrei, cristiani e musulmani, provenienti da esperienze forti e anche con ruoli pubblici non indifferenti, decidono di incontrarsi privatamente per spiegare le loro scelte, ma anche per ascoltare quelle altrui. Sono persone con ruoli anche pubblici che hanno scelto di sfidare le paure e i pregiudizi, per cercare di capire e di conoscere. Si tratta di figure cristiane pubbliche, di rabbini provenienti anche dagli insediamenti nei Territori, di Iman importanti. Non si accontentano della narrativa sugli altri ascoltata dai propri portavoce, ma vogliono attingere direttamente da testimoni della “controparte”. Dopo le paure iniziali, dopo il disagio nell’ascoltare ragioni non condivise, si impara anche a conoscere la logica e la coerenza delle rispettive scelte, senza necessariamente condividerle. E ci si stupisce della facilità a fraternizzare.
Sono solo alcuni degli esempi di vita esistenti in questa città particolare. Sotto la superficie di contenziosi e divisioni, dei vari Statu-quo della città, scorre un fiume di umanità bella, di uomini e donne che si mettono in gioco per dare espressione al desiderio radicato nel loro cuore di amore a Dio. Persone che desiderano incontrare il fratello e la sorella che vive accanto a loro e che rifiutano di credere sia un estraneo o addirittura un nemico. Non si accontentano di vivere di stereotipi, ma si pongono domande e cercano risposte direttamente e sinceramente.
Non dobbiamo generalizzare, certo. Non possiamo negare l’esistente tendenza alla polarizzazione e alla divisione, ma abbiamo anche il dovere di riconoscere le fonti di luce che illuminano questa città. Basta una piccola luce per eliminare l’oscurità. Nonostante tutto, Gerusalemme è ancora ricca di innumerevoli fonti di luce, che rendono questa città ancora luminosa.
È lì che ancora oggi si fonda la nostra speranza. E in questo senso Gerusalemme è davvero modello di convivenza e di dialogo. Solo lo spettatore superficiale si limiterà alle solite considerazioni delle difficoltà e delle divisioni della città che, pur esistenti, non esprimono tuttavia l’intera verità. L’osservatore attento saprà riconoscere, sotto la superficie complessa della città, un mondo di relazioni meravigliose e ricche. Gerusalemme, oggi, ci disvela le nostre complessità personali, sociali, comunitarie di vario genere, le nostre contraddizioni, i nostri sogni, utopia possibile per un futuro diverso, e si propone ancora e sempre come Città di pace.
Questa Città non è altro che un microcosmo, un piccolo scrigno nel quale attese e aspirazioni, pregiudizi e curiosità, inimicizie e fraternizzazione, sospetti e paure, odio e amore, dialogo e sospetto, si mischiano insieme creando una miscela unica e complessa.
In fondo, se ci pensiamo bene, la vita della città non è poi così diversa dalla vita del mondo. Attese, paure, amore, odio e qualsiasi altro sentimento si trovano nel cuore di ogni uomo e in tutte le società. Qui è solo tutto più concentrato, tutto diventa tangibile e trova espressione immediatamente percepibile.
Gerusalemme è lo specchio di ciò che siamo realmente, ci rimanda a fare i conti con il nostro cuore e ad appellarci al Dio misericordioso. Come uno specchio, appunto, che riflette la nostra immagine e ci aiuta, nella sincerità verso noi stessi, a perdonarci e a ricominciare ogni mattino, ad amarci per essere capaci di amare gli altri, tutti gli altri perché in tutti, in qualche infinitesimo modo, siamo anche noi.
+ Pizzaballa