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Meditazione di S.B. Card. Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei latini: XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, anno A

Meditazione di S.B. Card. Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei latini: XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, anno A

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario A

Mt 25,14-30

 

Nella parabola raccontata da Gesù nel brano di Vangelo di oggi (Mt 25,14-30) troviamo un elemento dissonante, su cui ci soffermiamo.

L’uomo di cui parla la parabola, infatti, ha davvero uno strano modo di regolare i suoi conti.

Prima di partire per un lungo viaggio aveva affidato i suoi beni ai suoi servi: ad uno cinque talenti, ad un altro due, ad un altro uno.

Due di loro li impiegano e ne guadagnano altrettanti; il terzo nasconde il suo talento in una buca, e gli restituisce semplicemente quello che aveva ricevuto.

La cosa strana è proprio al momento della restituzione, perché, da quanto dice la parabola, questa restituzione non avviene. Anzi.

Chi aveva ricevuto cinque talenti è chiamato a renderne conto, e dice di averne guadagnati altre cinque; il racconto, a questo punto, non dice che il padrone si prende tutto il guadagno, ma che, rallegrandosi del comportamento del servo, gli promette beni molto più grandi: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, di darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21).

E alla fine della parabola, il padrone ordinerà di togliere il talento al servo che non l’ha fatto fruttificare e dirà di darlo a chi ha dieci talenti (Mt 25,28): tutti i talenti, sia quelli ricevuti all’inizio che quelli guadagnati in seguito, sono dunque rimasti al servo, non sono tornati al padrone.

La stessa cosa accade con chi aveva ricevuto due talenti: anche per lui il padrone usa le stesse parole (Mt 25,23).

Cosa significa tutto questo?

Mi sembra che significhi che quanto uno “guadagna” nella vita, facendo fruttificare il seme di vita eterna che il Padre ha messo in ciascuno, quello rimane suo.

Non è come nel lavoro di un operaio di questo mondo: lavora, e poi consegna il suo lavoro al padrone. Con il Padre non è così: non sarà Lui a toglierci ciò che di bello è cresciuto nella nostra vita grazie al suo dono.

Lui non ci dà i suoi doni per richiederceli indietro aumentati, ma perché la sua presenza nella nostra vita cresca insieme a noi, e perché crescendo, ci porti all’incontro con Lui.

Il Padre è colui che, al termine della vita, ci rende partecipi, ci fa prendere parte a tutta quanta la sua gioia, dopo che nella vita ne abbiamo sperimentato solo un poco (Mt 25, 21.23). Se in questo poco siamo stati attenti, vigilanti, coraggiosi e creativi, allora il Padre gioirà con noi e noi con Lui.

Questo è esattamente il contrario dell’immagine di Dio che traspare nelle parole del terzo servo.

Costui, infatti, pensava al padrone come ad un uomo capace solo di esigere, e non di donare; un uomo preoccupato di sé, e non dei suoi servi

Ma a smentire il fatto che Dio sia un padrone esigente sono le parole che abbiamo già citato prima: “Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha i dieci talenti” (Mt 25,28). Il padrone non rivuole per sé neanche il talento del servo fannullone, ma chiede che sia dato a chi l’ha fatto fruttare.

All’origine del comportamento del terzo servo sta dunque un’immagine distorta di Dio, una relazione con lui non fondata sulla fiducia e sull’amore; per questo ha avuto paura di perdere il talento e l’ha nascosto, proprio come si erano nascosti Adamo ed Eva, dopo il peccato.

In realtà, l’unico modo per perderlo è proprio quello di nasconderlo, di non farlo fruttificare, ovvero quello di spegnere la vita di Dio dentro di noi.

Il tesoro che Dio ci dona chiede di per sé di essere messo in circolo: non è pensabile una libertà che non si sporchi le mani, che non agisca, che abbia paura di rischiare.

Se questo accade, il dono si spegne, come la luce della lampada di cui parlava il Vangelo di domenica scorsa (Mt 25, 1-13).

Se invece viviamo nella fiducia, sapremo vivere il tempo dell’attesa con la creatività tipica dell’amore, che sa cogliere ogni dono come possibilità di una vita buona.

+Pierbattista