Eccellenze Carissime,
Cari signori Consoli Generali,
Carissimi fratelli e sorelle,
Il Signore vi dia pace!
Anche oggi, come le donne del Vangelo, e i discepoli Pietro e Giovanni, siamo tornati qui, davanti al Sepolcro vuoto di Cristo, per pregare, per contemplare, per riconfermarci nella fede.
Il Vangelo proclamato oggi è un brano che risuona in questa basilica quasi quotidianamente. E sappiamo bene che è un Vangelo pieno di slancio e di vita. Parla di notte e buio, che però non spaventano più, perché stanno per cedere alla luce del mattino che incombe. Parla di pietra poderosa, ma ribaltata e che non rinchiude più nulla; di discepoli che corrono; di teli - segni della morte - che non legano più nessuno; di occhi che vedono; di cuori che credono e della Scrittura che si svela alla comprensione piena. Per noi quei segni hanno un chiaro significato di gioia, di vita e di speranza.
Eppure, se facciamo attenzione, il contesto del brano proclamato è inizialmente di morte e sconforto. Per i discepoli, infatti, tutto sembra finito. L’avventura, iniziata con tanto entusiasmo pochi anni prima, sembra terminata nel più fallimentare dei modi. Quel Gesù sul quale avevano scommesso tutto, al punto da lasciare famiglia, lavoro, casa, tutta la loro vita, insomma, per seguirlo, è morto nel più miserevole dei modi. Lo avevano seguito con entusiasmo e, anche quando non riuscivano a capire sempre i suoi discorsi e le sue scelte, non avevano cessato di stare con Lui. Lo amavano. Da Lui emanava una forza speciale che dava sicurezza. Ma ora quel Gesù che con potenza operava miracoli e parlava con autorità (cf. Mt 7,29), giace morto in un sepolcro, dietro ad una pesante pietra.
Nonostante questa drammatica fine, tuttavia, il legame dei discepoli con il Maestro non sembra sia ancora del tutto spezzato. Essi non sono ancora tornati ciascuno sulla propria strada. La morte non ha messo termine davvero a tutto. Maria di Magdala, infatti, non attende le luci dell’alba per andare al sepolcro di Gesù. È ancora buio, ma si mette in moto per andare da Lui. Non si rassegna all’assenza del Maestro, vuole trovare un modo per stare ancora con Lui. Anche i discepoli, Pietro e Giovanni, non si sono dispersi. Maria di Magdala corre da loro, perché tra loro c’era ancora un legame. E alla notizia che il corpo di Gesù era stato portato via, corrono anche loro al sepolcro, sconcertati. Hanno ancora a cuore il destino di Gesù, nonostante la Sua morte. Sono chiusi nel Cenacolo, frustrati e spaventati, ma non se ne sono andati, non si rassegnano a credere che la loro scommessa su Gesù sia davvero fallita. Per quanto tenue, c’è ancora un filo che li tiene uniti a Gesù e tra loro. Non sanno in che cosa sperare, ma allo stesso tempo non si decidono ancora ad abbandonare tutto. Alla notizia della Maddalena, dunque, corrono, sono impazienti di capire.
Cosa ha tenuto in vita il loro legame con Gesù, nonostante la Sua morte e sepoltura? Cosa li ha trattenuti dal tornare definitivamente sui loro passi? Cosa poteva superare il confine apparentemente invalicabile della morte di Gesù? L’amore. Solo l’amore ha questo potere. I discepoli amavano Gesù e quell’amore non si è esaurito con la Sua morte. Non è stato spento dal dolore o dalla frustrazione. Era ancora presente, aveva solo bisogno di ritrovare un nuovo modo di esprimersi, un nuovo slancio. Sarà la Parola di Gesù, ancora una volta, a permettere all’amore dei discepoli di ricollocare tutta la realtà nella giusta prospettiva: “Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù” (Gv 2,22). Alla vista della tomba vuota e dei teli e del sudario, insomma, il loro cuore comincia ad aprirsi ad una nuova comprensione degli eventi accaduti. “E vide e credette” (Gv 20,8).
L’amore ha una potenza creatrice. È il solo baluardo in grado di fermare il potere della paura, della morte e dei suoi pungiglioni (cf 1Cor 15,56) e di generare vita. La Pasqua, prima ancora che essere la parola definitiva di vita, che Dio pronuncia sul mondo, è l’annuncio di un amore che salva, che perdona, che ricrea nei nostri cuori aridi e affaticati, nuova vita e che non conosce nessuna morte. Ma non parliamo qui di un amore solamente umano, bensì dell’amore di Dio. È quell’amore che ha risuscitato Gesù con la potenza dello Spirito, quello stesso amore riversato anche nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (cf. Rom. 5,5), e che continua ancora ad operare in noi e nel mondo.
Questa parola viene annunciata anche a noi qui, oggi.
Viviamo in un periodo segnato da violenza e morte, di profonda sfiducia, visibile nei diversi ambiti della vita sociale, politica e religiosa dei nostri Paesi. Le violenze contro i nostri luoghi e simboli cristiani sono solo una delle espressioni della violenza più diffusa che caratterizza questo nostro tempo, che è presente ovunque. Invece di cercare di costruire relazioni, prospettive comuni di crescita e sviluppo, invece di riconoscerci parte di un’unica società, promuoviamo esclusioni e rifiuti. La politica, anziché sforzarsi di cercare vie di unità e il bene comune, sembra volerci fare precipitare in un vortice di sempre maggiore divisione, su tutto: tra israeliani da una parte e palestinesi dall’altra, ma anche tra israeliani fra loro e palestinesi tra loro, ed è sempre più incapace di una visione che crei prospettive e futuro. Anche a livello religioso il sospetto, gli stereotipi e i pregiudizi sembrano avere la voce più potente, in questo momento. Credo, insomma, che si possa dire che non sappiamo davvero amarci e proprio per questo stiamo vivendo un tempo alquanto deprimente sotto molti punti di vista.
In altre parole, forse abbiamo nel nostro cuore gli stessi sentimenti di disorientamento delle donne e dei discepoli del Vangelo. Qui in Terra Santa, ma anche in molte altre parti del mondo, la realtà che viviamo sembra parlarci di morte e di fallimento. Tutto porta a farci credere che non ci possa essere un futuro diverso dalle tensioni drammatiche di questo tempo, che parlare di speranza sia come battere l’aria, e forse anche noi non sappiamo in cosa sperare.
Per questo veniamo ancora oggi qui al Sepolcro di Cristo. Abbiamo bisogno di riascoltare quella Parola che risvegli nel nostro cuore quell’amore che ci ha generati alla vita e alla fede. Come i discepoli Pietro e Giovanni, abbiamo bisogno di ravvivare in noi quell’amore che ci spinga a correre verso il Sepolcro, ad avere il coraggio di riprendere i fili di relazioni spezzate, di sanare amicizie ferite, di dare fiducia nonostante i tradimenti, di sperimentare la forza risanatrice del perdono, di creare contesti di bellezza e di serenità, di guarire il nostro cuore da sentimenti di odio e rancore, di generare fiducia, desiderio e passione.
Una delle grandi povertà di oggi non è la mancanza di denaro e di successo, ma la mancanza di amore, dato e ricevuto. Non si ha nulla in cui credere, in cui sperare e per cui donare la vita, perché non si ha nulla che trabocca dal cuore. Non si ha fiducia nel prossimo, non si sa perdonare, perché non si è mai sperimentato il perdono.
Ma con la Pasqua di Cristo, il mondo ha acquistato una nuova dimensione: quella di quanti danno la vita per coloro che amano, e che non temono “tribolazione, angoscia, persecuzione, fame, nudità, pericolo, spada” (cf. Rom. 8,35), e nemmeno la morte, perché “in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rom. 8,37).
Qui oggi, ancora una volta, davanti a questo Sepolcro vuoto, noi rinnoviamo - per noi stessi e per tutta la nostra Chiesa - il desiderio di scommettere sull’amore di Gesù, di non temere la morte e i suoi legacci, ma di essere qui in Terra Santa e nel mondo, generatori di vita, di amore, di perdono e di speranza.
†Pierbattista Pizzaballa
Patriarca di Gerusalemme dei Latini