Incontro con le religiose (USRTS) a Notre Dame
Jerusalem, 29 novembre 2021
Carissime sorelle,
il Signore vi dia pace!
(Saluti)
Sono contento che si possano riprendere gli incontri in presenza, nonostante le ultime informazioni non siano così incoraggianti. Mi auguro che non si sia nuovamente all’inizio di un altro periodo di lockdowns e restrizioni. Sarebbe davvero un dramma per la nostra gente e penso anche per molte delle vostre comunità.
Siamo in partenza (se si riuscirà a partire!) per incontrare il Papa a Cipro in questa settimana. Preghiamo anche per questa visita e per i possibili frutti che essa porterà alla vita della nostra piccola comunità di Cipro.
Le comunità religiose della diocesi hanno preso sul serio l’invito del Papa a coinvolgersi nel cammino sinodale. Forse le religiose più dei religiosi. Diciamo che questa però non è una novità…
Abbiamo aperto a Deir Rafat la fase diocesana di tale Sinodo, e devo prendere atto del notevole entusiasmo e del desiderio di tutti, laici, religiosi e sacerdoti, dopo quell’incontro, per impegnarsi in questo cammino. Lo trova consolante e incoraggiante!
Le religiose (e i religiosi) ricoprono un ruolo prioritario nella vita della diocesi, sia da un punto di vista sociale (scuole, ospedali, servizi alle varie forme di povertà), che pastorale (parrocchie) che spirituale (comunità contemplative). Diciamo che in tutti gli ambiti della vita della Chiesa, la vostra presenza è costitutiva e spesso centrale. Non dico questo per captare la vostra benevolenza, ma per riconoscere un dato di fatto. Mi chiedo cosa sarebbe la diocesi oggi, senza la vostra presenza e senza le vostre opere. Certamente molto più povera!
Detto questo, bisogna comunque anche interrogarsi e porre domande sul proprio servizio e chiedersi cosa il Signore in questo momento ci chiede, su quello che facciamo e su come lo facciamo. In questo mondo che cambia così velocemente, anche qui in TS; con i cambiamenti generazionali nelle nostre comunità ecclesiali, che portano con sé anche cambiamenti culturali non indifferenti; con il rafforzamento sempre più evidente delle identità religiose nel mondo islamico ed ebraico che ci interpellano sempre di più; con i cambiamenti legislativi… e poi da un punto di vista interno, con il calare evidente e progressivo del numero delle religiose, l’invecchiamento del personale, i problemi economici seguiti alla pandemia… insomma, tutto sembra dirci che non possiamo non fermarci e interrogarci su cosa il Signore ci stia dicendo. Perché il Signore parla a noi certamente attraverso la Parola di Dio e i sacramenti, ma anche attraverso l’interpretazione dei segni dei tempi. Guai a noi pensare che queste domande non ci riguardino, che i nostri tempi siano quelli di sempre, cioè che il nostro operare sia sempre giusto, sempre pronto. Gesù rimprovera severamente chi pensava in quel modo: “Gesù allora disse loro: «Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto” (Gv 7,6).
La prima considerazione che mi sento di fare, dunque, è quella di chiedervi di avere il coraggio di sentirsi non adeguate, non “pronte”, ma bisognose di ascolto. È il primo passo per iniziare un cammino. Chi pensa di essere arrivato, non parte, ma si ferma.
In questo cammino sinodale ci è chiesto infatti di interrogarci su quello che siamo e su come viviamo, confrontandoci con la Parola di Dio, ma anche con la realtà nella quale siamo calati, che, ripeto, non è un elemento secondario. Il contesto nel quale il Signore ci parla è anzi determinante. I due poli di riferimento sono essenziali. Se guardiamo alla realtà, non possiamo non deprimerci, come i due discepoli di Emmaus. Ma se il nostro sguardo è illuminato dalla Parola di Dio, allora si farà spazio nel nostro cuore anche la speranza. Gesù ha aiutato i due discepoli di Emmaus a rileggere criticamente la storia, con una nuova chiave di lettura che prima non conoscevano; ha aperto loro gli occhi sulla novità, che era già in mezzo a loro, che era già prevista dalle Scritture, ma che non erano in grado di riconoscere.
Siamo invitati, dunque, ad avere uno sguardo critico sulla vita del mondo nel quale ci troviamo, e del servizio che svolgiamo, a chiederci in quale fase del cammino di Emmaus ci troviamo: depressi per un passato glorioso che però è terminato e non torna più; incompresi e soli nel nostro servizio; confusi per i tanti cambiamenti che non sappiamo decifrare… Ma dobbiamo anche chiederci dove ancora oggi, nel nostri operare, incontriamo il risorto? Quanto il nostro operare è un annuncio di un’esperienza di vita e di salvezza realmente conosciuta. In altre parole, quanta passione c’è ancora nella nostra vocazione e nella nostra missione?
Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci parla di sconvolgimenti nella storia umana, quelli che vediamo continuamente. Ma ci dice anche che la storia ha un fine: l’incontro con Cristo, che è il Signore della storia. E il Vangelo ci dice anche che vi sono due modi di stare in questa storia. Il modo di chi non aspetta nulla (“…il vostro tempo è sempre pronto”) e vive solo del presente, occupato dagli affanni della vita che lo assorbono totalmente e di chi sa stare nel mondo con atteggiamento di vigilanza, cioè di chi sa che questo mondo non è tutto, e si aspetta altro. È l’atteggiamento di chi rimane aperto, di chi non si riempie la vita, di chi lascia sempre un posto libero dentro di sé, per potersi stupire, per accogliere. Ed è l’atteggiamento di chi si aspetta una novità, e vive ogni cosa sapendo che proprio lì la novità inizia.
Accanto alla vigilanza, Gesù accenna alla preghiera (Lc 21,35). La preghiera è attingere dal Signore la forza di stare dentro ciò che accade, sapendo che non siamo soli. È una indicazione di metodo importante.
Una seconda e ultima considerazione riguarda la modalità di questo discernimento che questo tempo ci richiede. Come ho già detto nella mia lettera di apertura del Sinodo, siamo sempre tentati di confrontarci all’interno del proprio contesto (giovani, religiosi, ecc.). Cosa che è evidentemente necessaria. Ma ritengo che sia necessario anche confrontarsi con chi è esterno a noi. I due discepoli di Emmaus non avrebbero mai potuto aprire gli occhi se la discussione fosse rimasta solo tra loro. È stato l’incontro con Gesù che ha aperto loro gli occhi, cioè l’incontro con chi si è fatto loro vicino nel cammino.
La mia esperienza personale, dopo trent’anni di vita in TS, mi ricorda che il confronto sincero e sereno con chi è diverso da noi porta sempre una novità nelle nostre relazioni, nel nostro sguardo sul mondo e anche su noi stessi. Abbiamo bisogno di ascoltare di più. Ascoltare esperienze di vita, non solo conferenze (si licet), ma incontrare persone e realtà finora sconosciute, della Chiesa ma anche esterne ad essa, e riconoscere come vi siano molte altre persone, comunità, istituzioni, che donano la vita; altre che soffrono non meno di noi, ma non meno innamorate di vita e intrise di speranza. E qui in TS abbiamo solo l’imbarazzo della scelta, in questo contesto. È anche questo un modo per incontrare Gesù che si fa compagno nel cammino e ci aiuta a rileggere la propria storia alla luce della Parola di Dio e ci aiuta ad avere uno sguardo più reale e disincantato su noi stessi.
Per questo ho scritto nella mia lettera di indizione del sinodo di “incontrare esperienze, dalle quali imparare… Muoversi anche fisicamente dalla propria sala parrocchiale, dal proprio centro per incontrare un’altra realtà della propria Chiesa non conosciuta penso possa fare in molti casi la differenza”. Vi posso assicurare che è proprio così. Il cammino sinodale che ci viene chiesto, in conclusione, non è solo un cammino spirituale, ma concreto, che tocchi veramente la vita di ciascuno di noi.
Niente allarmismi, dunque; né depressioni, angosce o isterismi che vediamo a volte intorno a noi. Ma speranza, che è ciò che ci spinge a credere che quel Gesù che ci ha portato fin qui e fino ad oggi ci ha sostenuto nel nostro servizio, si farà ancora oggi nostro compagno di cammino, ci scalderà il cuore, ci aprirà gli occhi e continuerà a riempire nuovamente la nostra vita della Sua presenza.
+ Pierbattista