Omelia Giovedì Santo 2019
Gen 22, 1-18; Es 12, 1-14; Prov 9, 1-6. 10-11; Cor 11, 23-26; Gv 13, 1-15
Carissimi,
siamo qui riuniti per il solenne memoriale della Pasqua, nel quale, in maniera misteriosa ma reale, il Signore Gesù rinnova per noi il dono totale di Sé, ci comunica il dono della Sua vita, ci rende partecipi della Sua Risurrezione. In questa celebrazione, in particolare, Egli depone le sue vesti, indossa i panni del servo, si inginocchia ai nostri piedi e comincia a lavarli. Non è semplicemente un’opera buona, una dimostrazione di umiltà. L’apostolo Paolo ci ricorda che dentro questi gesti, vi è un mistero grande, una realtà sublime: lo spogliarsi del Verbo eterno della sua gloria, per assumere la debolezza della povera nostra umanità e risollevarla alle altezze della vita divina: “non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso… diventando simile agli uomini… umiliò se stesso facendosi obbediente fino … a una morte di croce… (Fil 2, 6.7.8)”.
Non occorre un cuore particolarmente sensibile o una capacità di immaginazione particolarmente spiccata per rimanere ancora oggi colpiti, quasi scandalizzati da tanto amore, da un amore che giunge fino alla fine, senza tentennamenti.
Quest’anno vorrei, insieme con tutti voi, ritrovare lo stupore, quasi lo scandalo di fronte a Cristo che, nell’acqua della lavanda dei piedi, nel pane e nel vino della Eucaristia, nell’affidamento della Sua grazia al nostro ministero sacerdotale si consegna nelle nostre mani e si lascia inchiodare sulla croce del nostro peccato.
Vorrei, in questa celebrazione, insieme con tutti voi, sedermi accanto a Pietro e chiedergli: “Signore, tu lavi i piedi a me?” (Gv 13, 6).
Non è questa finzione sentimentale o devozione superficiale. Se siamo onesti con noi stessi, dobbiamo riconoscere che l’iniziale spontanea incomprensione di Pietro, che giunge fino al rifiuto, è anche la nostra.
“Quello che Io faccio, tu ora non lo capisci” (13, 7). Questo “ora” per noi continua. Viviamo tempi dove la paura dell’altro, il rifiuto della fraternità, il ritorno a una concezione individualista della vita e anche della fede caratterizzano il nostro vivere quotidiano. Con Pietro, ci illudiamo che, per vivere, o sopravvivere, occorre occupare spazio per noi invece di fare spazio all’altro; che l’affermazione della nostra identità viene prima della relazione con chi mi sta accanto. Anche per noi preti, talvolta, il ministero viene confuso con l’esercizio del potere, fino all’abuso, come abbiamo troppo tristemente visto in questi tempi, anziché con il servizio alla vita della gente. Più che servire il Vangelo, può capitarci di servirci del Vangelo per noi stessi e i nostri interessi. Ci è stato chiesto di perdere la vita per Cristo e forse, talvolta, abbiamo preferito perdere Cristo per conservare la nostra vita.
“Se non ti laverò i piedi, non avrai parte con me” (13,8). Essere con Cristo, trovare la vera vita, passa attraverso la grazia e la sfida della fraternità, anzi dell’amicizia. Nell’ultima sera della Sua vita, il Signore Gesù non ci dà semplicemente un buon esempio, ma ci rivela la logica della vita vera. Vivere è aprirsi, è chinarsi, è donarsi all’altro. Se vogliamo salvare questo nostro mondo, occorre che passiamo dalla paura alla fiducia, dalla ideologia dei confini, del rifiuto dell’altro, del nemico, alla cultura della relazione. Chinarsi verso l’altro, dunque, ma per sollevarlo, in una prospettiva di amicizia e di amore. Ce lo ricorda ancora oggi il Maestro.
Qui in Terra Santa, nella nostra Diocesi, sentiamo particolarmente attuale l’invito di Gesù, che definisce il nostro modo di essere chiesa oggi, in questa nostra parte di mondo: essere fraternità secondo il modello di Cristo. Gesù, infatti, ci svela il volto di Dio: “Chi ha visto me, ha visto il Padre (Gv 14,9). In Lui siamo figli di un unico Padre e ci sentiamo e vogliamo perciò costruire le nostre relazioni come fratelli: tra persone di diverse nazioni, culture e religioni. Senza Cristo, i nostri progetti non avranno consistenza e prospettiva. E non parliamo qui di un Cristo generico, bensì di quel Maestro che alla vigilia della sua passione, lava i piedi ai suoi discepoli. Da quel gesto il cristiano impara il senso della fraternità.
Essere cristiani, essere preti, essere uomini e donne della Pasqua significa condividere con Cristo l’arte del donarsi, dell’aprirsi, del chinarsi di fronte all’altro senza piegarlo a interessi di parte. L’amore cristiano non è un sentimento passeggero, ma è comando divino a uscire da noi stessi per andare verso l’altro, in un viaggio senza ritorno su di sé. È questo il nostro vero esodo pasquale: uscire dalle nostre prigioni individualiste, dalle schiavitù delle nostre paure, dalle chiusure del nostro egoismo, verso l’autentica terra promessa dell’incontro, dell’ospitalità, del dono. L’altro, il diverso, non è una minaccia, ma un invito all’amore, un’occasione di servizio, uno spazio di testimonianza.
“Lo capirai dopo” (13,7). Il “dopo” cui si riferisce Gesù è l’ora della Croce pasquale, l’ora in cui la Risurrezione rivelerà la fecondità di una vita spesa, quasi sprecata per amore. Qui, in questa santa e suggestiva celebrazione, noi siamo nel “dopo” di Gesù. Siamo avvolti dalla luce e dalla grazia della Sua Pasqua già avvenuta una volta per tutte. Noi siamo quelli che abbiamo creduto all’amore, che abbiamo consegnato già la nostra vita a Cristo Crocifisso e Risorto, conformati a Lui nella fede e nei sacramenti. E, tuttavia, viviamo anche la fatica del “dopo” della storia, nella quale la Pasqua attende il suo compimento. Dovremo allora sempre di nuovo imparare con Pietro, e grazie a Pietro, la sapienza della Croce.
Dovremo accogliere innanzitutto il gesto di Cristo. Non si diventa fratelli se non si riconosce la comune paternità, se non si accetta la famiglia cui apparteniamo. Sento perciò il bisogno di invitare tutti noi a volgere lo sguardo verso l’alto, verso Dio Padre di tutti. Credo che dovremmo tutti riascoltare la Parola di Cristo che ci chiama amici.
Sono convinto che la nostra appartenenza alla Chiesa non può ridursi a questione identitaria, ma deve diventare passione comunitaria, progetto di comunione, vita fraterna. Occorre per questo uno sguardo contemplativo che sappia andare al di là di differenze, rancori, campanilismi, per cogliere l’unica vocazione, il medesimo battesimo, il comune destino. Dovremo tutti pregare di più e con Pietro, lasciarci convincere dal Signore a lavarci i piedi come ha fatto lui. Dovremo tutti celebrare meglio, con fede e devozione, i misteri che questa liturgia, attraverso il segno del Crisma e degli Olii santi, rimette nelle nostre mani. Bisogna lasciarsi accogliere da Lui, accettare di essere serviti da Lui e solo “dopo” saremo capaci di chinarci davanti agli altri. Se non vogliamo che la nostra testimonianza si riduca a filantropia, occorre che rinnoviamo ogni giorno la nostra fede grata in Lui e nella Sua vittoria pasquale. Il vero servizio che salva, infatti, è frutto della fede, risposta stupita a un dono ricevuto, nella quale alla Sua gratuità corrisponde la nostra gratitudine. Noi siamo e restiamo “secondi” a Lui, veniamo “dopo” di Lui.
Dovremo poi convertirci al pensiero di Cristo. In questo luogo, dove iniziò l’avventura pasquale di Pietro, dovremo innanzitutto riconoscere la nostra poca fede, la nostra fatica ad accettare la logica di Cristo ed a deciderci per lui. Il rinnovo delle promesse sacerdotali, per noi oggi, e delle promesse battesimali, per tutti nella Veglia pasquale, siano il nostro ritorno a Cristo. Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!» (13,9). Con Pietro possiamo passare dalla incomprensione all’adesione entusiasta, per diventare – nella nostra debolezza – ciascuno secondo la propria condizione e vocazione, principio e fondamento visibile di comunione e di fraternità.
† Pierbattista Pizzaballa