Pasqua
21 aprile 2019
Fratelli carissimi,
anche quest’anno siamo giunti al termine di questa speciale Settimana Santa che, come sempre a Gerusalemme, è densa, ricca, misteriosa e fecondissima.
I giorni della Settimana Santa sono stati giorni in cui la rivelazione dell’amore di Dio ha raggiunto il suo culmine.
Abbiamo visto, domenica scorsa, l’amore che si è rivelato nell’ingresso solenne di Gesù a Gerusalemme: un amore mite e regale. Un amore non violento, che non usa la forza, non sposa le logiche del potere.
Con il rito della lavanda dei piedi e la messa in Cena Domini abbiamo visto l’amore che si abbassa e si umilia, che è sacrificio e comunione.
Abbiamo poi, venerdì scorso, contemplato l’amore che non tiene nulla per sé e che, perdonando, dona tutto, anche la vita. Ma sappiamo che è grazie a quel totale dono di sé, che noi oggi partecipiamo alla sua vita divina.
Ora siamo di nuovo qui, davanti a questo Sepolcro vuoto, siamo giunti ancora una volta, come Maria di Magdala, come i discepoli Pietro e Giovanni del Vangelo appena proclamato.
Maria va al Sepolcro perché non ha altro luogo dove andare, se non dove c’è ancora qualcosa di quell’uomo che le ha ridonato la vita. Pietro e Giovanni corrono increduli alle parole di Maria, ma anch’essi non trovano ciò che si aspettano di trovare, cioè la morte: il sepolcro è vuoto, e le bende stanno lì a dire che la morte non tiene più in potere il Signore; Lui ha lasciato la morte.
Maria, e poi Pietro e Giovanni, insomma, vanno al Sepolcro portando con sé, nel loro cuore, le proprie attese.
E noi, con quale animo siamo giunti qui oggi? Cosa portiamo nel nostro cuore? Quale attesa?
Ognuno di noi porta con sé la sua esperienza di Pasqua, di morte e risurrezione.
Come ogni anno, ci chiediamo allora che significato ha questa Pasqua per noi. Che ci dice ora, oggi, il Cristo, morto e risorto.
Davvero abbiamo bisogno di tornare qui, di portare in questo Luogo la nostra attesa e desiderio di vita, per rafforzare la nostra fede nel ‘si’ definitivo di Dio all’uomo, una fede ferita spesso dalle tante esperienze di morte dentro e attorno a noi, da indurci a credere che la morte ci tenga in pugno. Abbiamo bisogno di tornare qui per dare concretezza alla Speranza che qui, in questo Luogo, affonda le sue radici.
Nella situazione tragica che stiamo vivendo, è questa speranza che viene in soccorso ad una fede che si scontra tutti i giorni con una violenza così grande, che davvero ci pare la vittoria del Male. È questa speranza che ogni giorno ci spinge ad operare la carità, anche se vediamo bene che è una goccia d’acqua nel deserto. È la speranza di un mondo diverso, secondo il cuore di Dio, che ci aiuta a camminare verso un futuro per noi imprevedibile. La Speranza, infatti, non è attesa di in futuro improbabile, ma consapevolezza di un dono che accompagna il presente. È il buon terreno su cui la fede si fonda, su cui la carità diventa testimonianza; senza la speranza la fede muore, e la carità non trova forza per agire.
Per comprendere questo mistero è tuttavia prima necessario entrare nel Sepolcro. Pietro e Giovanni vi entrano, ciascuno con il proprio passo e i propri tempi, perché è un’esperienza personale, che nessuno può fare al posto di un altro. Ciascuno di noi deve vedere con i propri occhi che la morte non è più lì, che la morte non regna più.
E portiamo qui, davanti a questo Sepolcro vuoto, non solo la nostra esperienza di morte e risurrezione, non solo le nostre personali attese, ma anche quelle della nostra comunità, della nostra Chiesa, della nostra gente, e di quelle dei pellegrini e penitenti che sono giunti qui da tutto il mondo.
Entriamo, dunque, e chiediamoci cosa portiamo oggi, qui? Quali esperienze di paura e morte in noi hanno bisogno ancora una volta di essere travolte e sbaragliate dalla testimonianza di Vita che questo Luogo ha in sé?
Portiamo forse la stanchezza derivante da attese frustrate, perché sbagliate, legate al risultato finale; attese interessate al successo e al salvataggio delle nostre imprese pastorali, sociali ed economiche, più che alla salvezza delle nostre vite. Portiamo i nostri orizzonti piccoli, il nostro ripiegarci sempre su noi stessi, la difficoltà a creare spazi per gli altri e le loro necessità, il timore che la vita e le attività degli altri ci tolgano qualcosa che invece deve essere solo nostro; la paura di perdere posizioni. Portiamo logiche e attese di potere, di desiderio di centralità a scapito altrui. Portiamo la rassegnazione all’idea che non possa mai accadere qualcosa di nuovo, qualcosa di bello per noi. Portiamo la sfiducia in un cambiamento possibile per la nostra vita, per la nostra gente, per la nostra Chiesa.
Sogniamo la libertà, anziché conquistarla. Parlo, qui, della libertà che nasce dalla propria decisione interiore, prima ancora che dalle condizioni esterne di vita. Libertà di dire ogni giorno di si a Dio, quasi ricominciando tutto da capo, con lo stesso entusiasmo, valutando la sconfitta di ieri come partenza per l’impegno di oggi e di sempre. Libertà di scegliere ogni giorno da che parte stare, operando il bene secondo il cuore di Dio.
Portiamo la fatica di fare la differenza, di essere straordinari: “Che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” (Mt 5, 38-48).
Nella vita politica tutto ciò è evidente e visibile agli occhi di tutti. Ma dovremmo smettere di puntare il dito fuori di noi, e guardare agli altri; dobbiamo riconoscere che, si, anche noi, in fondo, non siamo in nulla diversi o esenti da queste ombre di morte e che fatichiamo, come gli altri, a collaborare, condividere e accoglierci.
Ebbene, venendo qui oggi, portiamo tutte queste fatiche nostre e della nostra Chiesa e chiediamo, preghiamo, imploriamo che avvenga ancora oggi il miracolo. Che si ripeta per noi quell’evento che ha cambiato la vita di Maria di Magdala, di Pietro e Giovanni e poi di tutti gli altri discepoli. E, dopo di loro, di tanti profeti e santi di ogni tempo, che noi onoriamo e che ci presentano una vita bella, grande, dove la gioia cristiana si rende presente nelle avversità o nel dolore.
Chiediamo di avere la gioia di essere ancora una volta sconvolti e che le nostre paure vengano smentite dalle testimonianze sul Risorto, che ci dicano ancora una volta: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto” (Mc 16, 6). Chiediamo qui la grazia e il dono di un cuore capace di scorgere i segni del risorto, del Vivente in mezzo a noi, di una presenza concreta, consolante, tenera. Solo l’amore può vincere la morte e superare i confini del tempo. Chiediamo perciò il dono di saper scorgere nella vita della nostra comunità quell’amore che in questi giorni della Settimana Santa abbiamo celebrato nella liturgia, ma che sappiamo si celebra quotidianamente anche nella vita domestica delle nostre famiglie, nelle nostre case di riposo, nei servizi ai poveri e ai piccoli, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nella gioia di tanti che, qui in mezzo a noi, continuano a dare la propria vita agli altri. Laddove qualcuno dona parte di sé, li si celebra il Vivente. Dove si scommette sulla fiducia, li trionfa il Risorto. Ma non vogliamo questo miracolo solo per altri. Lo chiediamo chiediamo anche per noi stessi: che lo sguardo del Risorto trafigga i nostri occhi, ferisca il nostro cuore e che spezzi ancora una volta le nostre corazze, dentro le quali ci rinchiudiamo.
E così, nello spirito del Risorto vogliamo essere il lievito che fa fermentare tutta la pasta (1Cor 5,6), il piccolo resto che non cede, non arretra, ma che con entusiasmo e coraggio, vinta ogni paura, lo precede. In Galilea, nelle nostre case, nelle nostre Chiese, dove l’uomo è solo o perduto, con chi gioisce o impreca, la vogliamo andare, per dire ancora una volta, che il Signore ci ha visitato, lo abbiamo visto. Il Risorto è ancora qui tra noi, e ovunque ci precede (cf. Mc 16, 7). E ci attende.
Buona Pasqua!
+ Pierbattista Pizzaballa