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Omelia I domenica di Quaresima (B) a Barcellona

Omelia I domenica di Quaresima (B) a Barcellona

Omelia I domenica di Quaresima – B 

Barcellona, Sacra Famiglia, 18 febbraio 2024 

 

Eminenza Reverendissima, 
Carissimi fratelli e sorelle, 
il Signore vi dia pace! 

Vi ringrazio per l’invito a partecipare a questo vostro momento di solidarietà, nella preghiera e nell’ascolto, con le realtà di conflitto e di divisione e in particolare, quest’anno, con la Terra Santa, lacerata da un conflitto tra i peggiori degli ultimi decenni, e segnata da un odio che non si era mai visto in queste forme così dure. 

Siamo all’inizio della Quaresima e il Vangelo ci presenta il brano conosciuto delle tentazioni, nella forma breve del Vangelo di Marco, che si trova subito dopo l’episodio del Battesimo di Gesù, momento di una delle manifestazioni della Trinità, in cui Gesù viene consacrato dal Padre. 

Dopo quel momento glorioso, lo Spirito Santo spinge Gesù nel deserto, nel luogo della prova e della tentazione. La Parola ascoltata dal Padre nel luogo del Battesimo, infatti, aveva bisogno di scendere nella sua carne, nella sua vita. 

Il Vangelo di Marco non racconta il contenuto delle tentazioni, ma fa intendere che tutto il periodo trascorso da Gesù nel deserto è stato una lotta, una prova continua. Un luogo cioè dove la Parola ascoltata entra a contatto con la vita, con la debolezza, con il limite: e lì si vede se “tiene”, se resiste, se è vera. Lì si vede se davvero ci fidiamo, se nel momento della prova continuiamo ad ascoltare e a fidarci di Dio, oppure se scegliamo altre strade, se preferiamo una scorciatoia, se facciamo da noi stessi. 

Un conto è la teoria della nostra fede, la professione del nostro credere. Altra cosa è l’incontro della fede con gli eventi della vita, quando non sempre o non subito la Parola sembra combaciare con ciò che ci accade. Allora è necessario il deserto, dove muovere i passi di una fede incarnata, dove conoscere Dio non più per sentito dire (cfr Gb 42,5), ma per esperienza personale.  

La vita nuova, iniziata nel deserto, è fatta intravvedere dall’evangelista Marco con un’immagine suggestiva: dice infatti che nel deserto Gesù stava con le bestie selvatiche e che gli angeli lo servivano (Mc 1,13). 

Bestie selvatiche e angeli rappresentano i due estremi più opposti che si possano trovare nella vita: l’altezza più sublime e la bassezza più umile. 

Ebbene, questi opposti possono trovare pace e convivere insieme, senza più timore.  

Ma è anche possibile l’opposto, che si scelga la via breve, la scorciatoia suggerita dal demonio. E allora non ci potrà più essere armonia e pace tra angeli e bestie selvatiche, non ci potrà essere la pace. 

In Terra Santa il deserto copre gran parte del Territorio del Paese, fa parte della vita di tutti i suoi abitanti e offre panorami meravigliosi. Non sembra però che abbiamo imparato a vivere il significato pieno del deserto, come il Vangelo ci offre. Sembra che nelle tentazioni, che sono sempre le stesse – potere e successo nelle loro varie forme – abbiamo scelto di scendere a patti con il Diavolo. 

Dal 7 ottobre a oggi, infatti, siamo stati presi nel vortice degli eventi e abbiamo visto morte, distruzione, ferite, violenza, rancore, desiderio di vendetta. La cronaca è conosciuta e non è il caso in questa sede di entrare nei dettagli del numero delle vittime e degli eccidi commessi. Posso solo dire che non si è mai vista una situazione così grave negli ultimi decenni.  

Questa crisi non risparmia nessuno. Anche la piccola comunità cristiana di Terra Santa è colpita, come tutte le altre comunità. Penso in particolare alla nostra parrocchia di Gaza, dove circa un migliaio di persone sono assembrate nel due complessi parrocchiali cattolico e ortodosso, privati di tutto: acua, elettricità, viveri, medicinali. L’approvigionamento è sempre più difficile e pericoloso, 24 persone sono già morte sotto gli attacchi di bombe e di cecchini. Come gran parte degli abitanti di Gaza, hanno perso tutto. Le loro case sono distrutte, e non sanno quale sarà il loro futuro. È solo un piccolo esempio di quello che sta vivendo la popolazione a Gaza. Ma anche in Israele il dolore è grande, e lo shock per quello che è avvenuto il 7 ottobre non è ancora superato.  

La grave crisi in corso in poco tempo ha smantellato l’illusione di facili prospettive di pace. Ciascuno oggi è chiuso nel proprio contesto di vita, all’interno delle rispettive comunità di appartenenza, chiuso nel proprio dolore, spesso anche arrabbiato, deluso, senza fiducia. È chiaro a tutti, dunque, che si dovrà ricominciare daccapo per ricostruire, con pazienza, tenendo conto degli errori del passato, delle tante e troppe ferite del passato e del presente, che forse non erano state prese sufficiente considerazione, e che i tempi di una guarigione, saranno necessariamente lunghi, avranno bisogno di percorsi complessi, ma che saranno comunque decisamente necessari.  

È forse questa una delle difficoltà di questo nostro tempo, almeno in Terra Santa: il proprio cuore è talmente pieno, invaso, lacerato dal dolore, da non riuscire a trovare spazio per il dolore dell’altro. Ciascuno vede se stesso come vittima, la sola vittima, di questa guerra atroce. Vuole e chiede empatia per la propria situazione, e spesso percepisce nell’esprimere sentimenti di comprensione verso altri da sé, un tradimento o almeno un mancato ascolto della propria sofferenza. Una situazione in tutti i sensi lacerante. Forse sarebbe meglio il silenzio dinanzi a tutto questo. 

Secondo il Vangelo il deserto è il luogo dove si è liberi dalle provocazioni e dal chiasso del mondo, dove è più facile fare i conti con se stessi, e dove si è in un certo modo costretti a mettere ordine nel proprio cuore e nelle propriore relazioni. Il deserto, insomma, è il luogo fisico e spirituale dove nel silenzio ci è più facile ascoltare la voce di Dio.  

Non è quello che stiamo vivendo in Terra Santa. Abbiamo il deserto fisico, il deserto di Giudea, che in questi giorni è bellissimo perché dopo le pioggie è verde e fiorito con colori meravigliosi. Ma non viviamo il deserto spirituale. Il rumore delle armi e delle bombe si accavvalla alle tante voci di odio e di rancore che continuamente si levano nei media e nelle strade di tutto il Paese, creando in tutti un senso di disorientamento e di sfiducia grandi. 

Mi colpisce, soprattutto, lo tsunami di odio che traspare nei discorsi, anche di personaggi pubblici, nelle espressioni che negano l’umanità dell’altro in maniera crudele. 

È necessario, invece, preservare il senso di umanità, innanzitutto nel proprio linguaggio, in privato e in pubblico, nell’uso dei social media, che hanno un effetto dirompente sull’opinione pubblica, e che allo stesso tempo non consentono di dare profondità e prospettive a situazioni così complesse come quella che stiamo vivendo. Il linguaggio crea opinione, pensiero, può alimentare speranza, ma anche odio. L’umanità, cioè la necessità di rimanere umani, di conservare il senso di rispetto per la dignità della persona, del suo diritto alla vita e alla giustizia, inizia con il linguaggio. Un linguaggio violento, aggressivo, carico di odio e di disprezzo, di rifiuto e di esclusione, insomma, non è un elemento accessorio a questa guerra, ma è anzi uno degli strumenti principali di questa e troppe altre guerre. Definire l’altro come “animale”, o comunque usare espressioni che negano l’umanità dell’altro, da qualunque parte esse vengano, è anch’essa una forma di violenza che apre o forse addirittura può giustificare scelte di violenza in molti altri contesti e forme. Sono espressioni che forse feriscono più ancora degli eccidi e delle bombe. Dio ha creato il mondo con la Parola (“sia fatta’). Anche noi creiamo il nostro mondo con le nostre parole. Lo abbiamo visto in questi mesi in maniera decisamente sensibile e dura. 

È necessario quindi il coraggio di un linguaggio non esclusivo. Che anche nel più duro dei conflitti e delle contrapposizioni, mantenga comunque saldo e chiaro il senso di umanità, perché, per quanto la si possa sfigurare con la propria condotta malvagia, restiamo comunque tutti persone create a immagini di Dio, sempre. Non è questo, in definitiva, il più grande contributo della Chiesa, nella nostra situazione, fornire cioè un linguaggio in grado di creare un mondo nuovo non ancora visibile, ma che si manifesta all’orizzonte? 

Questa guerra è anche uno spartiacque nel dialogo interreligioso, che non potrà essere più come prima, almeno tra cristiani, musulmani ed ebrei, che in questo momento sta vivendo momenti di incomnprensione reciproca. Dovremo ripartire, coscienti che le religioni hanno un ruolo centrale anche nell’orientare, e che il dialogo tra noi dovrà forse fare un passaggio importante, e partire dalle attuali incomprensioni, dalle nostre differenze, dalle nostre ferite. Si dovrà farlo, non per bisogno o necessità, ma per amore. Perché, nonostante le nostre differenze, ci vogliamo bene, e vogliamo che questo bene trovi espressione concreta nella vita non solo personale, ma anche delle nostre rispettive comunità. Volersi bene, non significa necessariamente avere le stesse opinioni, ma saperle esprimere ed apprezzare, rispettandosi ed accogliendosi l’un l’altro. 

Sono convinto che è su tale cammino che dobbiamo orientare i nostri passi. Affinché la profezia della pace diventi realtà vogliamo educarci al rispetto, all’incontro, al dialogo, al perdono. Tutti, ebrei, musulmani e cristiani, dobbiamo essere innanzitutto testimoni credibili di speranza, perché convinti della bontà di Dio su tutti gli uomini. Senza speranza non si vive. Oggi c’è più paura che speranza. La paura si affronta con le armi della fede e della preghiera, come Gesù nel deserto. Proprio in questo tempo di guerra e di profonde divisioni, noi vogliamo credere che questo sia anche il tempo della speranza. Credo che l’antidoto alla violenza e alla disperazione, da qualunque parte venga, sia creare speranza, iniettare speranza, generare speranza, educare alla speranza e alla pace. La Chiesa, la scuola e le università hanno un ruolo chiave in questo: è qui che si deve cominciare a rieducare la gente alla pace e alla non-violenza. Essere profeti di pace significa concentrare la nostra attenzione sul dramma di entrambi i popoli, israeliano e palestinese. Dobbiamo imparare ad amare entrambi, a sentirli prossimi e amici. Solo così crolleranno i muri e sorgeranno nuovi ponti, capaci di «un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio» (Francesco, Fratelli tutti, n. 1). 

In questo momento tutto questo sembra solo un sogno che non si potrà mai avverare. Nella fede che ci sorregge, crediamo invece che sia la responsabilità alla quale Dio ci chiama e per la quale non cesseremo mai di impegnarci. 

+Pierbattista