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Omelia Giornata della Vita Consacrata 2022

Omelia Giornata della Vita Consacrata 2022

Giornata della vita consacrata 

2 febbraio 2022 

Carissimi fratelli e sorelle in Cristo, 

il Signore vi dia pace! 

In tutto il mondo oggi celebriamo la giornata per la Vita Religiosa. 

Vorrei lasciare che la Parola che abbiamo ascoltato ci aiuti a rileggere il senso, il significato profondo di quello che noi religiosi viviamo, che è prezioso, non solo per la vita di ciascuno di noi e delle nostre rispettive comunità, ma anche per per la Chiesa intera. 

Il nostro stile di vita ha qualcosa di paradossale, o almeno dovrebbe porre una domanda che inquieta, perché è assolutamente controcorrente, ed esce fuori da quelli che sono i valori e gli schemi comuni e ordinari non solo della nostra società, ma anche di un certo modo di essere cristiani e di pensare la vita di fede. 

In qualche modo la nostra scelta dovrebbe essere una profezia di ciò che tutti noi siamo, e siamo chiamati a diventare, di ciò che tutti noi un giorno saremo. 

La Parola ci dona oggi due icone, che ci parlano proprio di tutto questo. 

Chi sono Simeone e Anna? 

Mi piace pensare che Simeone e Anna sono due persone che il Signore ha consolato. 

Il versetto 25 ci dice proprio che a Gerusalemme c’era un uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele. 

Tutto l’annuncio dei profeti potrebbe riassumersi dentro questa parola, “consolazione”. Basti pensare che la seconda parte del libro di Isaia, che inizia con il famoso annuncio della liberazione (“Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio -…” Is 40,1), è chiamato proprio il “Libro della consolazione di Israele”. I profeti ricordano al popolo che Dio desidera consolare, farsi presente, esserci accanto, che Dio non abbandona. 

E Simeone aspetta proprio questo, aspetta la consolazione di Israele. È una persona giusta e pia, ma è una persona che sa che questo non è tutto, che la verità della vita non è dentro la nostra giustizia, cioè dentro una logica esclusivamente umana di vivere, ma è oltre e ci porta oltre, e va attesa. E lui attende, tutta la vita, con l’unica certezza che gli viene dallo Spirito. Attende tutta la vita, e in un giorno come tutti gli altri giorni, al tempio come sempre, Simeone viene consolato. 

Ma cos’è la consolazione? 

Ce lo dice Simeone, al versetto 30, quando, rileggendo cosa gli è capitato oggi, accogliendo fra le braccia questo bambino, scopre meravigliato di aver “visto la salvezza”, di averla vista con i propri occhi. 

Dunque la consolazione è vedere la salvezza, e vederla con i propri occhi, cioè farne esperienza. È la capacità – cioè la fede - di scoprire che Dio si fa presente e visita la nostra vita, e lo fa in un modo assolutamente nuovo, imprevedibile. Che il Signore visita proprio laddove noi non te lo aspetteremmo o non te lo attenderemmo più. 

La consolazione è l’esperienza che ciò che più di ogni altra cosa l’uomo desidera, ma che gli è impossibile ottenere con le proprie forze, ebbene, proprio quello diventa – per grazia - realtà. È l’esperienza del cielo che si squarcia, cosicché ciò che speri contro ogni speranza – cioè la vita - ti è donato. E così facciamo esperienza di una guarigione avvenuta in noi. Solo Dio può consolare veramente. 

Noi no, noi non possiamo consolare, perché noi non abbiamo parole di vita eterna. Abbiamo parole umane, povere, limitate, incapaci di dare la vita, di prendersi cura fino in fondo. 

Ma quando noi abbiamo fatto esperienza della consolazione di Dio, allora avviene che anche noi possiamo essere un segno di consolazione gli uni per gli altri. 

È quello che dice San Paolo nella 2Corinzi (1,3-4): 

“Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione,il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione” 

 

Simeone e Anna sono due persone consolate perché sono due persone consacrate, nel senso più profondo del termine, cioè un uomo e una donna che hanno legato il senso della propria vita ad un’attesa, persone che hanno dato un senso al proprio desiderio, e lì hanno abitato, senza cedere alla stanchezza, alla paura, al pessimismo. 

Consacrati sono coloro che sanno che solo Dio può consolare, solo Lui può dare la vita, e scelgono di rimanere lì, in attesa, dentro una povertà che attende da Lui il compimento della propria esistenza. 

E questa attesa, questo vivere in riferimento ad un oltre, è la verità profonda della loro vita. 

Mi sembra che questa sia una delle grande sfide di oggi: cioè la capacità di trovare il proprio desiderio profondo, e di unificare la vita intorno a questo desiderio, accettando anche di stare in un vuoto, di abitare in un deserto dove non c’è null’altro, dove non si riempie la vita di nulla che non sia uno sguardo fisso sulla consolazione che viene da Dio. 

L’adorazione eucaristica che tutti noi facciamo almeno una volta alla settimana, possiede questi tratti, questa capacità di fare vuoto nel cuore, per vivere solo di uno sguardo, di un oltre che si fa presente dentro la vita di ogni giorno. 

Proprio perché Simeone e Anna sono capaci di attendere, allora sanno riconoscere. Ma sono anche capaci di lasciarsi sorprendere. (cfr. Giovanni Battista, al Giordano, quando lo riconosce proprio perché si lascia “spostare”, si lascia sorprendere da questo Messia che si mette in fila come tutti gli altri…) 

Dio sorprende perché è piccolo, perché è “solo” un bambino, perché non ha nulla di diverso da ogni altro bambino, perché la sua venuta non ha nulla di straordinario. 

Anche noi religiosi abbiamo questa missione, di perseverare nel riconoscere Dio e in qualche modo “allenarci” a riconoscerlo dentro ogni povero e dentro ogni povertà, a partire dalla propria, dalla povertà della propria vita. Nel riconoscerlo dentro tutto ciò che non ha nulla di straordinario. 

Lo straordinario accade dentro di noi, quando lo riconosciamo, perché allora ci cambia la vita, perché questo riconoscere Dio nella propria vita mette pace: “Ora lascia, o Signore che il tuo servo vada in pace…” 

E quindi il frutto di tutto questo non può essere che una profonda pace, che ha il volto di questi due anziani miti, che non hanno più bisogno di altro, perché hanno visto la salvezza. 

Siamo qui, dunque, a raccogliere tutto questo, e a chiedere al Signore che questo atteggiamento profondo di attesa, di consolazione, di riconoscimento, di mitezza e di pace oggi segni per sempre la nostra vita, quella delle vostre comunità, e – di riflesso - anche di ciascuno di noi. 

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