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Omelia per il Natale 2020

Omelia Natale 2020

Betlemme, 24 dicembre 2020

Is 9, 1-6; Tt 2, 11-14; Lc 2, 1-14 

“Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce, su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”  (Is, 9,1).

Carissimi…..

la profezia di Isaia e il Vangelo del Natale che abbiamo appena ascoltato illuminano anche quest’anno la notte dei pastori e la notte del mondo intero.

Ci sentiamo tutti ottenebrati, stanchi, sfiniti, oppressi da troppo tempo sotto il giogo pesante di questa pandemia che sta bloccando le nostre vite, sta paralizzando i rapporti, sta mettendo a dura prova la politica, l’economia, la cultura, la società.  Antiche debolezze strutturali si sono amplificate e non sembrano profilarsi all’orizzonte soluzioni chiare e condivise.

Anche chi ci governa brancola nel buio. Le comunità cristiane, da parte loro, faticano a conservare ritmi consolidati nel tempo e non riescono a immaginare il nuovo che verrà.

Tanti in questi mesi, come e meglio di me, hanno provato a fare diagnosi, a immaginare scenari futuri, a dipingere a tinte più o meno scure la situazione attuale.

Io però, in questa mia prima messa natalizia da Patriarca, non voglio accordare la mia voce a quella di quanti sanno ben descrivere la notte. Io devo, voglio, dare voce alla profezia, farmi eco del Vangelo, comunicarvi la grazia di quest’ora.

Sì, fratelli e sorelle, poiché quella che stiamo vivendo qui, adesso, è un’ora di grazia!

Non è una pia illusione, né fuga romantica in una religione rassicurante o in una consolazione a buon mercato.

“Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un Figlio”: questa è la certezza dei cristiani. La notte, qualunque notte, non è l’ultima parola sulla storia nostra e dell’umanità. Se Colui che è Luce da Luce è nato di notte, allora anche la notte appartiene al giorno, anzi, la notte diviene natalizia, cioè diviene luogo di una nuova e possibile nascita. Noi cristiani sappiamo che al fondo delle nostre crisi, dentro le nostre oscurità, in mezzo alle nostre debolezze è nato un bambino che è un Dio potente e con Lui è cominciata una nuova storia di fiducia e di speranza, di rinascita e di risurrezione. La vita divina che Cristo ci porta in dono può e vuole trasformare la morte in vita, il dolore in speranza, la paura in fiducia. Credere in Lui non è negare irragionevolmente la realtà, ma avere uno sguardo nuovo e profondo che ci fa scorgere nel dolore della creazione le doglie di una nuova nascita. Credere è continuare a camminare non con la tenacia di chi non si arrende ma con la fiducia di chi tende e attende una meta.

“E’ apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini” (Tt 2,11). Sulla scena di questo mondo non agisce solo il male, la sofferenza e la morte. Se il male abbonda, la grazia sovrabbonda. Essa agisce nelle menti e nei cuori, insegna vie nuove di giustizia e di pace, di speranza e di vita. Quel che è accaduto qui 2000 anni fa non è una favola né un mito, ma è l’inizio di una storia nuova di cui, se vogliamo, possiamo essere i protagonisti. Una presenza misteriosa ma reale riempie di sé il mondo. La vita che qui a Betlemme è iniziata, ha sconfitto la morte e ci autorizza a sperare in quella vittoria che ancora si compie. Sperare nella grazia di Cristo non è illudersi, ma trovare ragioni per impegnarsi a costruire un ordine nuovo. La pandemia, con il suo carico di sofferenza e di morte, ci chiede di immaginare un mondo diverso, fatto di nuovi rapporti solidali e fraterni, dove il possesso sia sostituito dal dono e la ricchezza di pochi divenga bene per tutti.

“Oggi è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore” (Lc 2, 11). Esiste la salvezza e ha un volto e un nome: quello di Gesù Cristo. Egli è il Figlio di Dio, la Sapienza e la gloria del Padre che ha voluto, per sua misericordia, condividere le nostre gioie e i nostri dolori, fino alla morte e oltre. Egli ha percorso le nostre stesse strade, ha pianto le nostre lacrime, ha condiviso le nostre sofferenze lavando i nostri piedi fino alla fine. Con l’Incarnazione egli si è unito in qualche modo a ogni uomo, prendendo ciò che è nostro e donandoci ciò che è suo (cfr GS 22). In questa Città di Betlemme egli è nato per farsi cibo e bevanda, insegnandoci che non c’è salvezza al di fuori dell’amore dato e ricevuto. Salvare l’uomo è servirlo: e noi ci salveremo da questa e da tutte le altre crisi e sciagure solo se faremo del bene di tutti il nostro supremo interesse. “Il Natale del Capo è il Natale del Corpo”, scrive san Leone Magno (Discorso VI per il Natale). Ci siamo accorti, in questa tragedia, che siamo tutti connessi, e che siamo responsabili gli uni degli altri. La Chiesa, Corpo di Cristo, lo ha sempre saputo: il Salvatore che oggi è nato faccia rinascere anche noi alla consapevolezza che siamo tutti figli e perciò tutti fratelli, come ci ricorda il santo Padre, e che - per questo - l’amore è l’unica vera via di salvezza.

Fratelli e sorelle,

noi stanotte non vogliamo e non possiamo dimenticare la tristezza e la preoccupazione che stringe il cuore del mondo come in una morsa. Anche qui in Terra Santa non facciamo eccezione. Viviamo in una terra che ha come vocazione propria la pluralità e l’apertura al mondo, ma assistiamo continuamente ad atteggiamenti opposti. Anziché essere inclusivi siamo sempre più esclusivi: anziché riconoscerci l’un l’altro, ci neghiamo l’un l’altro. Penso in particolare ai nostri fedeli che vivono in Palestina: come per Maria e Giuseppe, anche per loro sembra non esserci posto nel mondo, sempre da capo invitati, prima di poter vivere con dignità a casa loro, ad attendere un futuro sconosciuto e continuamente rimandato.

Ma non vogliamo e non possiamo nemmeno dimenticare che con il Natale di Cristo Dio stesso è entrato nel mondo orientandone il cammino verso un futuro di gioia e di pace. Nel mezzo delle nostre paure, noi vogliamo afferrare la mano che Cristo ci offre per un rinnovato cammino di fiducia, di speranza e di amore.

Noi, perciò, stasera vogliamo contemplarlo con i Pastori, cantarlo con gli Angeli, accoglierlo con Maria e Giuseppe, offrirgli con i Magi l’incenso della nostra difficile fede, la mirra della nostra sofferta speranza, e l’oro del nostro fiducioso amore, e rimetterci in cammino.

A lui, Dio potente, noi chiediamo di sconfiggere la malattia, il male e la morte e restituirci giorni lieti e sereni.

A Lui, Consigliere Ammirabile, vogliamo chiedere di illuminare i politici, i medici e i ricercatori, e quanti cercano con sincerità di cuore soluzioni giuste e vere per il bene di tutti.

A Lui, Padre per sempre, consegniamo i malati, i poveri, i sofferenti e i defunti, perché tutti siano visitati dalla sua misericordia che sana, conforta, consola e vivifica.

A Lui, Principe della Pace, affidiamo questa nostra Terra e questa nostra Chiesa, le cui ferite fanno ancora più fatica a rimarginarsi in questo tempo difficile e doloroso.

A Lui, Grazia di Dio fatta carne, domandiamo di convertirci dai nostri egoismi e dalle nostre chiusure a pensieri e a opere buoni e santi, perché al Suo ineffabile dono corrisponda la nostra collaborazione fedele e concreta.

A Lui, Salvatore e Signore nostro, promettiamo di donare quanto siamo ed abbiamo perché ancora e sempre “si conosca sulla terra la sua via e fra tutte le genti la sua salvezza” (cfr Sal 67,3). Amen.

+ Pierbattista Pizzaballa
Patriarca Latino di Gerusalemme