Omelia Messa Crismale 2020
Gerusalemme, Basilica del Getsemani, 18 giugno 2020
Is 61,1-3.6.8-9; Ap 1,5-8; Lc 4,16-21
Eccellenze Reverendissime,
Cari sacerdoti, Cari religiosi e religiose,
Vi saluto con le parole dell’Apocalisse che abbiamo appena ascoltato: “Grazia a voi e pace da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra”!
Penso che sia la prima volta da molto tempo che ci ritroviamo per la Messa crismale, fuori dalla Settimana Santa e, soprattutto, fuori dalla Basilica del Santo Sepolcro. Ma è comunque anche questo un tempo provvidenziale, perché dentro le nostre celebrazioni, in qualunque luogo o tempo la Chiesa si raduni, è sempre Lui che ci raduna, è sempre Lui “che ci ama e ci libera dai nostri peccati con il suo sangue, e che fa di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre. A lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.” (cf Ap 1, 5-6).
Vorrei partire da un avverbio di tempo che abbiamo appena ascoltato nel Vangelo: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,21). Oggi. Sento profondamente l’esigenza di condividere con voi quello che ci dice la nostra fede, per non vivere in modo superficiale il nostro “oggi”. Anche questo tempo, anche questo pezzo di storia così complesso e difficile che stiamo vivendo appartiene all’ “oggi” di Cristo, è attirato in quel compimento che avviene ogni volta che noi ascoltiamo con i nostri orecchi la Sua Parola e spezziamo con le nostre mani il Suo Pane.
Non riesco perciò a pensare questa nostra celebrazione della Messa Crismale di oggi solo come un rinvio imposto dalle circostanze che conosciamo. Mi appare piuttosto come un invito a un approfondimento o, meglio, ad un prendere un’altra posizione. Il Signore, oggi, come aveva fatto nella sinagoga di Nazareth, ci chiede di aprire di nuovo il rotolo delle Scritture, di leggervi la verità del nostro presente, e di riavvolgervi dentro la vita: la vita di ognuno di noi, la vita delle nostre società, la vita della nostra Chiesa, con le sue attese, le sue speranze e le sue fatiche. Il periodo difficile che abbiamo vissuto, per la pandemia e per le sue conseguenze, deve diventare anche un invito a ripensare a noi stessi in modo diverso, a prendere un nuovo posto nel mondo... ma anche antico: il posto che Gesù prende nella sinagoga di Nazareth. Che cosa ha annunciato Gesù in quel momento? La profezia messianica, la liberazione, la possibilità della consolazione (Cf Lc 4,18). Insieme a Gesù e come Lui, tra le tante voci confuse che abbiamo sentito in questi giorni, come Chiesa e come sacerdoti, abbiamo la grazia e il compito di far risuonare innanzitutto la Parola di Dio, che corregge visioni antropologiche troppo miopi, che dilata strategie politiche e sociali troppo ristrette, che indica alle nostre comunità, stanche e disorientate, strade evangeliche di fede e di essenzialità, di sobrietà e di condivisione. Solo così non ci lasceremo andare a un generico ottimismo a buon mercato. Al contrario, ritroveremo nella Parola di Dio la forza e il coraggio di gesti e parole di speranza, fondata sul Dio dell’Alleanza che – come ci ricorda il profeta Isaia - mai viene meno alla Sua promessa di ricostruire sulle nostre macerie... L’olio degli infermi ci invita a questo: non ad essere gli infermieri di un mondo in agonia, ma i testimoni della Salvezza, che è più di una guarigione.
Oggi noi ritorniamo al sacerdozio: lo vogliamo contemplare cercando di ritrovare in esso l’intenzione di Dio e la Sua volontà. Anche in questo caso dovremo riposizionarci e ripensarci. Anche in questo caso, non dobbiamo inventare nuovi posti o nuovi ruoli della Chiesa e dei sacerdoti nel mondo, ma solo ricollocarci nel posto che fu di Gesù e che deve essere anche il nostro: il Cenacolo e la Croce. Non voglio fare una apologia del dolore, ma ricordare che si può stare nel dolore trasformandolo in offerta, fino al dono di sé. Il Luogo nel quale ci troviamo, il Getsemani, ci richiama proprio a questo, ad un abbandono totale nella volontà di Dio. Siamo qui oggi anche per assumerci nuovamente l’impegno di fare nostra la Sua volontà e la Sua vita. E saremmo degli illusi se pensassimo che questo abbandono viene da sé, come qualcosa di automatico. Lo stesso Gesù nel Getsemani vive l’esperienza di una lotta drammatica, della tentazione che lo porterebbe a preferire la propria volontà: “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” (Matt. 26,39).
Qui al Getsemani è in gioco la relazione di Gesù con il Padre, che è costitutiva dell’identità di Gesù, che è Figlio e solo Figlio. Gesù da sempre ha vissuto con il Padre una relazione filiale di amore, di obbedienza, di fiducia completa, di reciprocità. Ma ora Gesù sente che questa fedeltà al progetto del Padre gli chiede di rinunciare proprio a quella sua stessa identità di Figlio. Si tratta, infatti, di prendere su di sé il peccato dell’uomo, cioè la disobbedienza al Padre. Paradossalmente, per essere fedele al Padre, Gesù lo deve perdere. Perdere il Padre, vivere con l’uomo peccatore l’estrema lontananza da Dio, accettare questa totale solitudine e abbandono, è l’unico modo in questo momento per rimanere Figlio. È, paradossalmente, l’unico modo per amare il Padre in quest’ora decisiva.
Qui al Getsemani è in gioco anche la relazione con i propri fratelli, con l’umanità che Gesù ha assunto e che i discepoli rappresentano molto bene. In questo momento decisivo Gesù deve dare la vita ai suoi fratelli che, in quel momento, cosa fanno? Dormono, non sono con Lui e manifestano, dunque, ai suoi occhi la loro estrema fragilità.
È in gioco un’altra relazione molto importante: quella con il maligno, con Satana. Che qui ritorna con la sua forza tentatrice e spera di trovare un Gesù debole, vuole vincerlo, insinuarsi tra il Padre e Gesù come si era insinuato tra Dio e Adamo, come ha cercato di fare all’inizio, con le tentazioni nel deserto. Satana vuole separare Gesù dal Padre, tentandolo a fare la propria volontà e non quella del Padre.
Alla luce di tutto ciò, qui in questo Luogo e nei nostri diversi Getsemani, tutti noi, ma soprattutto noi vescovi e sacerdoti, diciamo e dichiariamo la nostra volontà di unirci a Gesù, di identificarci con Lui. Dichiariamo con forza il nostro desiderio di rinunciare a qualsiasi cosa ci impedisca di vivere pienamente e fino in fondo quella stessa relazione che ha nutrito Gesù, siano essi beni materiali, superbie umane o spirituali; vogliamo rinnovare la nostra obbedienza a Dio Padre senza condizioni, qualunque essa sia, perché così troveremo la nostra libertà di figli e lo faremo rinnovando la nostra obbedienza alla Chiesa e ai suoi pastori. Riaffermiamo, inoltre, fedeltà, amore e fiducia ai fratelli e alle sorelle di questa nostra Chiesa, siano essi svegli o dormienti, fedeli o traditori. Dicendo sì al Padre, diremo sì ai nostri fratelli e sorelle, così come sono. E proprio per questo diremo di no a Satana, al suo potere divisivo e a tutto ciò che ci separa da Dio e dagli altri. Sarà questo il nostro modo nuovo e antico, di vivere il nostro sacerdozio.
Qui chiediamo che il Suo Spirito ci doni un cuore capace di amare. Perché solo l’amore è più grande del dolore e trasforma la disperazione in speranza e la rassegnazione in missione. È lo Spirito che, attraverso il crisma, ci trasforma e ci rende capaci di essere sacerdoti di una nuova alleanza. Uomini e donne, Chiesa intera che non ha paura di fare proprio lo stile di vita di Gesù e del cristiano: perdere per ritrovare, donare per possedere, morire per risorgere... Come già dicevo celebrando la festa del Corpus Domini, il culto nuovo di cui siamo ministri chiede di essere verificato nella esistenza quotidiana, vissuta nell’offerta di sé (cf Rm 12, 1ss), pena la sua inutilità. I tempi che verranno, infatti, ci annunciano povertà e sofferenze antiche e nuove, e ci chiederanno un supplemento di giustizia, di riconciliazione e di amore. Non saremmo credibili, perciò, se ci recassimo all’altare per celebrare l’Eucarestia, senza avere celebrato anche il completo dono di sé nella vita del mondo, nelle nostre comunità, assumendo la fatica e l’impegno di portare i pesi gli uni degli altri, nella gioia e nel dolore, nella solitudine del ministero o nella fraternità condivisa.
E così, in un tempo dove la testimonianza cristiana e la presenza della Chiesa sembra essere destinata alla irrilevanza o all’incomprensione, scopriremo un nuovo “protagonismo”, una nuova “regalità” che non è sinonimo di potere per noi, ma di verità e di libertà: la libertà dei figli di Dio. “Ha fatto di noi un Regno” (Ap 1,6), dice l’Apocalisse; Regno che però non è di questo mondo. In Cristo e come Lui, noi siamo Re. Significa che in mezzo a un mondo che parla di libertà ma inventa sempre nuove forme di schiavitù, siamo chiamati a restare liberi: liberi per il Regno, liberi da pesi inutili, da usanze e tradizioni forse rassicuranti ma che non parlano più alla vita perché non sanno più di vita, liberi per l’oggi della Salvezza che risuona in ogni incontro vero con Cristo! L’olio dei catecumeni che oggi benediciamo ci richiama questa dignità ma anche questo coraggio battesimale, che dovrebbe renderci tutti non opposti gli uni agli altri, ma testimoni sempre nuovi di verità e libertà evangeliche, in un mondo che spesso, sotto apparenze di novità, ripropone vecchie logiche di dominio e prevaricazione.
Permettetemi infine di sognare e di pregare con voi per una Chiesa veramente profetica, profondamente sacerdotale, autenticamente regale.
Profetica, perché libera dalle logiche umane di potere, e perciò capace di consolazione, di visione e di coraggio. Capace di parlare al cuore dell’uomo e di indicare la risposta alla sete di vita e di amore che vi è in ciascuno di noi.
Sacerdotale, perché capace di stare tra gli uomini e Dio, di intercedere presso Dio per il bene del mondo, di portare a Dio e offrire a Lui la propria vita per amore del mondo.
Regale, perché capace di testimoniare la signoria di Cristo sul mondo, signoria di amore, di dono, di libertà e di gratuità.
Possa dunque la nostra Chiesa di Cristo in Gerusalemme essere anche qui, in mezzo alle difficili vicende di questa Terra, testimonianza sincera della Regalità di Cristo. Amen.
+Pierbattista