Natale 2019
Messa di mezzanotte
Caro signor Presidente dello Stato di Palestina, Mahmoud Abbas,
Caro signor Musa Bek Al Daud, Rappresentante di Sua Maestà il Re Abdullah II,
Signori diplomatici,
Cari Fratelli e Sorelle in Cristo,
Il Signore vi dia pace!
Saluto innanzitutto tutti i fedeli della nostra diocesi di Gerusalemme residenti in Giordania, in Israele, in Palestina e a Cipro che in questo momento sono uniti a noi nella preghiera o che stanno celebrando nelle loro parrocchie, negli ospedali e laddove si sono radunati per celebrare il Natale di Cristo insieme, in famiglia e in comunità.
Saluto i numerosi pellegrini che hanno voluto unirsi alla Chiesa di Gerusalemme per pregare e celebrare insieme a noi questo santo Natale e saluto, infine, tutti coloro che in questo momento ci seguono attraverso la Televisione e i vari media.
Auguro a tutti voi che questo Santo Natale vi porti un po’ di serenità.
Il significato del Natale è sempre lo stesso: Cristo, figlio di Dio e Dio, nostro Salvatore e Signore, che si fa uomo e nasce povero a Betlemme. Celebriamo un Dio che da sempre è alla ricerca dell’uomo e che a Natale ha deciso di irrompere nella nostra stessa carne e abitare in mezzo a noi.
Di fronte a questo grande mistero siamo chiamati ogni anno ad interrogarci sul suo significato per noi, qui e oggi, come se fosse la prima volta. Celebrare il Natale, in altre parole, significa ancora una volta mettersi in cammino, come i pastori, come i magi e come tanti credenti di ieri e di oggi. Per loro celebrare l’irruzione di Dio tra noi ha significato entrare a loro volta nella vita del mondo, fare propria la vita e il destino di ogni uomo.
A Natale tutto il mondo guarda a noi, tutti i credenti si rivolgono a Betlemme. Andare a Betlemme, tuttavia, non significa solo andare ad un Luogo, celebrare una devozione, ma assumere, fare proprio anche uno stile, lo stile di Gesù, che potremmo anche chiamare lo “stile di Betlemme”.
Ancora una volta ci aiuta comprendere tutto ciò il brano del Vangelo che è stato proclamato. Può sembrare strano che il brano di Vangelo che racconta la nascita del Salvatore, il Cristo, il Signore (Lc 2,11), abbia come protagonisti dei pastori. Quando nasce un personaggio importante, si avvisano, di solito, persone importanti.
Gesù viene così, e la sua nascita dice il suo stile, le sue scelte. Viene in modo normale, senza clamore, senza pubblicità, senza onori. È vero, il brano inizia in modo solenne, citando i grandi eventi e i grandi personaggi del tempo: Cesare Augusto (2, 1), il governatore della Siria Quirinio (2,2), un censimento di tutta la terra. Ma questo grande evento viene poi lasciato lì, senza che abbia un seguito: non è questo che cambia la storia.
Potremmo dire, a questo proposito, che il brano è segnato da due viaggi, da due spostamenti. C’è il viaggio di Maria e di Giuseppe, e quello di chi, come loro, va a farsi censire nella città dove ha avuto origine il loro casato, in obbedienza al decreto di Cesare Augusto. E poi c’è il viaggio dei pastori, che partono in seguito ad un annuncio mai sentito prima.
I primi partono per sottomettersi ai capricci del potente di turno, che vuole misurare la propria forza e le proprie ricchezze. Partono, arrivano, fanno ciò che è comandato. Ma poi tutto torna come prima.
I secondi si mettono in cammino perché proprio loro, che non contavano nulla, che erano disprezzati ed emarginati, sono i primi destinatari di un dono che è per tutti. Come i Vangeli della Pasqua, anche quelli della nascita sono pieni di verbi di movimento.
Dio si mette in cammino, e compie il suo primo passo in mezzo agli uomini. Ma questo suo venire fra noi mette in cammino tanti altri. Gli angeli, per primi, che lasciano il cielo per annunciare agli uomini ciò che sta accadendo (2,9.14). I pastori, poi, che lasciano il loro gregge per andare a cercare ciò che è stato detto loro (2,15). E più avanti anche i re Magi (Mt 2,1.11).
Questo viaggio, però, il viaggio di questi personaggi insignificanti per la storia del tempo, cambia qualcosa. Il Vangelo usa diverse volte un’espressione che può aiutarci a capire cosa succede questa notte. Quando l’angelo si presenta ai pastori, si dice che la gloria di Dio li avvolse di luce (2,9).
Proprio questo è il mistero del Natale: Dio si è rivestito della nostra umanità per ridonarci il vestito che da sempre aveva pensato per noi, quello della Sua gloria, della Sua stessa vita. Un vestito che l’uomo aveva perso, allontanandosi dalla relazione con Dio. Con la sua disobbedienza, infatti, l’uomo si era rivestito di tenebre.
Il cammino, il movimento che inizia in questa notte ha come meta la pienezza di questo scambio, di questa nuova vestizione. Tutto il resto del Vangelo è il seguito di questo viaggio, che è un ritorno di Cristo là da dove è venuto.
E il popolo del Vangelo si divide in due: chi si mette in cammino con Cristo e chi rimane sulla propria via; chi accoglie con stupore l’annuncio e chi non si muove dalle proprie sicurezze; chi accetta, come i pastori, di lasciarsi rivestire di luce, senza meriti, e chi, come Erode e i grandi del tempo, resta chiuso nei suoi palazzi e nelle sue vuote certezze, non vuole lasciare l’abito del lutto. Il Natale va cercato e non lo si incontra se restiamo chiusi e fermi nelle nostre sicurezze. Potremmo dire che il Natale è il giorno in cui siamo chiamati ad interrogarci ancora una volta su dove ci collochiamo: siamo con i pastori in cammino, alla ricerca dell’Emmanuele, del Dio-con-noi, nella vita nostra e in quella del mondo, oppure anche noi ci siamo chiusi nei nostri palazzi?
Rivolgo questa domanda innanzitutto a me stesso e alla nostra Chiesa.
Cosa significa per me, per noi qui, oggi, mettersi come i pastori in cammino e non rinchiuderci nei nostri palazzi, cercare il mistero dell’Emmanuele e non avere paura della novità di Gesù? Cosa significa essere popolo di Cristo per noi? Cosa significa assumere lo “stile di Betlemme”?
Prima ancora che fare qualcosa, assumere lo “stile di Betlemme” significa sentire come proprio, dentro di sé, nel proprio cuore e nella propria carne, il destino di ogni uomo, a cominciare dal povero, da chi è rifiutato e abbandonato. Significa, poi, piegarsi sulle ferite causate dall’ingiustizia, dall’odio e dal rancore. Significa lavorare in silenzio, senza chiasso e senza clamore, così come avvenne con la nascita di Gesù, per portare la luce della gloria di Dio ovunque ci sia ombra di tenebra. Ma, prima ancora, significa lasciare che la luce di Betlemme illumini noi stessi, i nostri occhi e il nostro cuore. Non potremmo infatti portare la luce, se prima non l’abbiamo ricevuta. E perché quella luce ci illumini, dobbiamo lasciare che il bambino di Betlemme vinca le nostre resistenze interiori, le nostre paure e ci conquisti il cuore. I pastori del Vangelo erano liberi, e accolsero immediatamente il messaggio degli angeli. I poveri del Vangelo hanno questa libertà, che forse a noi manca.
In questo senso, qui in Terra Santa abbiamo molto cammino da fare perché questo stile diventi veramente nostro.
A volte, infatti, ho come l’impressione che siamo guidati più dalle nostre paure, che dalla luce della gloria di Dio. Che la paura di sbagliare, che il giudizio di questo mondo determini le nostre scelte più che il desiderio di incontrare ogni uomo, amarlo e rivestirlo di luce. Ho come l’impressione, a volte, che facciamo fatica a fare nostro lo “stile di Betlemme”.
Questo succede quando ci stanchiamo di vedere e di riconoscere come ingiusto quanto accade attorno a noi, quando cioè ci rassegniamo ad accettare come normali le separazioni e divisioni della nostra popolazione causate dalla politica, o la fatica nella vita di ogni giorno per trovare e per recarsi al lavoro, per spostarsi liberamente. Quando facciamo nostro il rifiuto ad accettare nella nostra realtà l’esistenza dell’altro diverso da noi, sia esso ebreo, musulmano o cristiano. Succede quando ci stanchiamo di parlare di pace e di costruirla, ma la consideriamo una irrealizzabile utopia. Succede, insomma, quando restiamo chiusi nei nostri palazzi lontani dalla vita della gente, dentro le nostre case e nelle nostre certezze, preoccupati solo di noi stessi, e ci rifiutiamo di ascoltare, accogliere e fare nostra la voce degli umili, dei diversi da noi, di quanti attendono una parola di speranza. E penso anche alle divisioni in tante nostre famiglie, alla violenza e alla prepotenza che sembra essere l’unico linguaggio parlato da tutti.
Sarebbe ingiusto, tuttavia, limitarsi a stigmatizzare la nostra fatica nell’assumere lo “stile di Betlemme”, e non riconoscere invece quanti lo vivono nel silenzio, ma con determinazione.
Penso a quanti spendono la loro vita per servire i disabili che nessuno vuole, alle scuole dove i nostri giovani cristiani e musulmani crescono insieme, alle tante iniziative di solidarietà che continuamente sorgono all’interno delle nostre comunità in tutto il territorio della nostra diocesi.
Ma credo che si possa parlare di “stile di Betlemme”, in questa nostra terra lacerata e divisa dalla politica, dalle religioni e da tanto odio, anche quando incontriamo persone, associazioni, istituzioni che vogliono, con determinazione e nonostante tutto, semplicemente incontrarsi, conoscersi, costruire qualcosa insieme, superando le incomprensioni di quanti non condividono il loro desiderio di incontro e di pace. Sono quelli, insomma, che, come i pastori di Betlemme, si mettono in cammino sfidando la paura, il sospetto e l’incredulità per incontrare, amandolo, l’Emmanuele, ovunque e chiunque esso sia. Sono loro oggi a ricordarci che lo “stile di Betlemme” è ancora possibile. Celebrare il Natale vuol dire allora celebrare chi ha ancora desiderio di amare l’uomo, e si mette in gioco per esso.
Qui in Terra Santa e non solo oggi, ma ogni giorno dell’anno, sono ancora molte le persone che celebrano in questo modo il Natale di Gesù. E a loro va il nostro più sincero ringraziamento e incoraggiamento a continuare ad essere la speranza per tutti noi.
Un bambino sa suscitare in chiunque, anche nel cuore più duro, tenerezza e sorriso. Quel sorriso e quella tenerezza sono parte della gloria con la quale gli angeli hanno avvolto i pastori. Possa, allora, il Bambino di Betlemme suscitare in tutti noi tanta tenerezza e regalarci ancora una volta un sorriso. Anche se non risolverà tutti i nostri problemi, quel Bambino ci renderà certamente felici.
Buon Natale!
† Pierbattista Pizzaballa