16 giugno 2024
XI Domenica del Tempo Ordinario B
Il brano di Vangelo di domenica scorsa si era concluso con lo sguardo di Gesù, posato su coloro che gli stavano intorno (Mc 3,34). È uno sguardo capace di vedere oltre ciò che appare: Gesù guarda le persone che lo stanno ascoltando, e vede in essi dei fratelli, delle sorelle, delle madri.
Guarda delle persone e vede delle relazioni, vede il legame che li unisce in profondità.
Questo legame è il frutto maturo della fede: fede non è soltanto credere a delle verità rivelate, quanto entrare in una relazione che plasma la vita, accedere ad una nuova identità che non può più pensarsi al di fuori della relazione con il Signore e con i fratelli.
Il Vangelo di oggi (Mc 4,26-34) è un brano che riporta due parabole, entrambe ispirate all’ambiente agricolo, con le quali il Signore dice qualcosa del Regno, ovvero qualcosa di quella relazione di cui parlavamo sopra, perché il Regno dei cieli è questa relazione d’amore che unisce le persone in un’unica vita, la vita di Dio.
Le parabole di oggi ci raccontano come questo accade, quali passaggi rendono possibile il cammino del seme fino al frutto maturo.
La prima cosa che possiamo notare è che l’iniziativa è sempre di Dio (Mc 4,27).
Tutta la storia della salvezza testimonia questo: è sempre Dio a prendere l’iniziativa dell’alleanza con l’uomo. L’uomo, da solo, non potrebbe mai pensare possibile quest’alleanza, questa relazione d’amore. Allora è Dio che si impegna a seminare la storia con il seme dell’alleanza e dell’amore.
Il Regno inizia da un seme che non siamo noi a produrre, e che è donato alla terra con assoluta gratuità.
Non è l’uomo, con le sue forze, a produrre il frutto: è Dio che prende l’iniziativa di porre nella terra il seme della sua vita.
Il seme, dunque, è di Dio; ma, ancor meglio, il seme è Dio stesso.
Dio sceglie di fare della sua vita un seme messo nella terra dell’umanità, perché questa terra fiorisca e porti un frutto che non è semplicemente un frutto di vita umana, ma un frutto di vita divina.
Il seme che marcisce sotto terra per dare vita è Gesù stesso, la sua morte e la sua resurrezione.
Quindi, il seme che può dare vita al mondo è la Pasqua: spazio di salvezza dove la vita di Dio viene seminata in ogni vita.
Il seme ha alcune caratteristiche precise: è molto piccolo (Mc 4,32), e quindi apparentemente insignificante e impotente. Questa è dunque la strada che Dio sceglie: se decide di mettere la sua vita in un seme, allora la strada non sarà mai quella della forza, della potenza, della visibilità. La strada del Regno sarà sempre quella dell’umiltà, perché l’amore non potrebbe mai esprimersi altrimenti.
Ma cosa allora rende il seme così forte?
Il seme è piccolo, ma è vivo, e questa è la sua forza.
È vivo di una vita che ha attraversato la morte, per cui, paradossalmente, proprio morendo sotto terra porterà frutto.
Da una parte il seme, dunque, ma dall’altra la terra (Mc 4,31), perché se è vero che la terra, da sola, non produrrebbe alcun frutto, la stessa cosa vale per il seme: il seme ha bisogno della terra, proprio come Dio ha bisogno dell’uomo.
Ma qual è il compito della terra?
Compito della terra, ovvero compito dell’uomo, è accogliere il seme, custodirlo.
Sembrerebbe un compito secondario, esclusivamente passivo, ma non è così: accogliere è un verbo attivo, dinamico, perché significa sempre, in qualche modo, lasciarsi trasformare la vita.
Custodire l’altro significa lasciarlo vivere dentro di sé, che è una declinazione dell’amore: solo se si ama il seme lo si fa fiorire dentro di sé.
Ed infine c’è il frutto maturo (Mc 4,28): ma il frutto buono è una spiga, ovvero di nuovo altri semi. Per dire che il frutto maturo è diventare persone che portano in sé la vita di Dio, il suo essere seme, il suo essere Pasqua, dono per altri.
Infatti, nella seconda parabola il frutto maturo è paragonato ad un albero, capace a sua volta di accogliere e di custodire la vita di altri (Mc 4, 32).
Dio ha dunque nell’uomo una fiducia incrollabile; e quando posa su di noi il suo sguardo, vede questo: il frutto maturo della carità, di legami più forti di quelli del sangue, che fanno di noi fratelli, sorelle e madri.
+Pierbattista