21 aprile 2024
IV Domenica di Pasqua B
Gv 10,11-18
Il brano di Vangelo di oggi (Gv 10,11-18) è tratto dal capitolo decimo del Vangelo di Giovanni, il cosiddetto capitolo del buon pastore.
Non è un caso che la sapienza della Chiesa ci faccia leggere questo capitolo nel tempo pasquale: solo con la luce della Pasqua, infatti, possiamo accogliere questa Parola, e comprendere chi sia questo buon pastore che dona la vita in abbondanza (Gv 10,10)
Il capitolo si era aperto con l’immagine della porta (Gv 10,2.7.9): Gesù, prima di presentarsi come pastore del gregge, si presenta come porta dell’ovile.
Perché la porta? La porta è fondamentale perché sia possibile il passaggio e la comunicazione tra due luoghi, tra due realtà. Senza la porta due spazi potrebbero essere anche vicini, ma rimarrebbero comunque isolati.
Gesù è la porta: con la sua vita terrena, con la sua morte e con la sua risurrezione, riapre la via di comunicazione tra cielo e terra, tra l’uomo e il Padre.
“Aprire” è un verbo fondamentale nella storia della salvezza, al punto da coincidere, per certi aspetti, con la salvezza stessa. Dio salva aprendo: apre il mare, apre una via di salvezza nel deserto, apre una via per il ritorno dopo l’esilio, apre il cielo perché finisca la siccità, apre i grembi sterili, perché possa passare la vita.
Domenica scorsa, poi, abbiamo visto che il Risorto apre la mente dei discepoli alle scritture (Lc 24,45).
Ma non solo: i discepoli erano chiusi in un luogo (Gv 20,19) proprio come Gesù, poco prima, era stato chiuso in un sepolcro; e come il sepolcro non è rimasto chiuso, ma si è aperto perché Gesù potesse riprendere la vita, così anche i discepoli sono chiamati ad aprirsi alla vita: la risurrezione di Gesù apre il tempo della nostra resurrezione, del nostro rinascere alla vita.
Proprio per questo Gesù è il buon pastore, perché apre l’ovile e porta fuori le sue pecore (Gv 10,3-4). Non le lascia chiuse nella loro schiavitù, nella paura della morte, ma le porta fuori, le libera: apre per loro la via della vita.
E veniamo così al brano di oggi.
Gesù è il buon pastore, in contrapposizione al mercenario (Gv 10,12).
Dietro a queste due figure ci sono due logiche, due stili di vita contrapposti.
Il mercenario è colui che agisce solo dietro ad un compenso, in vista di un guadagno: il suo servizio è sempre interessato, e quando l’interesse viene meno, viene meno anche la relazione, perché non è intessuta di intimità e di appartenenza: le pecore non conoscono la voce degli estranei, dei mercenari.
Il mercenario, dunque, non offre sicurezza, per il fatto che, di fronte al pericolo, preferisce salvare la propria vita: quando viene il lupo, scappa, perché ha paura della morte.
Gesù, si pone in modo diametralmente opposto.
Non ha paura della morte, perché l’ha attraversata per primo, e ha sperimentato che l’amore del Padre non l’ha lasciato prigioniero della morte, ma gli ha riaperto la strada della vita.
Così, nella sua relazione con noi, Egli non cerca un guadagno personale, ma il piuttosto il nostro: è venuto perché abbiamo la vita e, per questo scopo, è disposto ad offrire la sua.
Gesù insiste su questo: nessuno gliela toglie, ma Lui stesso la dona (Gv 10, 15,17-18).
Questo è il buon Pastore, colui che è passato attraverso la morte, e di lì, attraverso questa porta, può guidare il gregge al pascolo della vita, perché si esce dalla morte solo nel momento in cui si ascolta una parola carica di amore vero.
Nei nostri confronti, dunque, il Signore ha solo un amore disinteressato e libero, fatto di conoscenza reciproca e di fiducia. E le pecore conoscono la sua voce, perché le pecore saranno disposte ad ascoltare la voce di chi è disposto a dare la tutto per loro. Su questa voce si può appoggiare la vita.
Un ultimo passaggio: l’amore del buon pastore non si esaurisce per una categoria di persone, per un gruppo di privilegiati. Dio ha nostalgia di ogni uomo, e tutti vuole portare fuori, perché si diventi un solo gregge, una sola famiglia (“E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare” - Gv 10,16).
A farci diventare una sola famiglia, dunque, non saranno tanto gli sforzi personali umani, le varie tecniche e le strategie, ma l’ascolto fiducioso di una voce che chiama tutti ugualmente ad uscire.
Perché ci si incontra veramente solo “fuori”: fuori da pregiudizi, da piccole appartenenze, fuori da logiche mercenarie. Solo quando ognuno sarà uscito, e dunque salvato, allora ci si potrà veramente incontrare.
+Pierbattista