Omelia Giovedì Santo
Santo Sepolcro
Carissimi,
Da più parti e da più persone in questi giorni mi sono sentito dire: “ti prepari a una Pasqua difficile!”
Il riferimento è chiaramente ai mesi terribili che stiamo vivendo qui in Terra Santa, alla dura prova cui sono sottoposte la nostra fiducia e la nostra speranza, la nostra convivenza civile e la stessa fraternità eccle-siale. È anche un modo di dire per esprimere comprensione, partecipa-zione, vicinanza e solidarietà. E qui ringrazio di vero cuore quanti, a partire dal Santo Padre, in questi mesi ci hanno sostenuti e continuano a sostenerci con la loro preghiera e la loro fattiva generosità.
Certo: la guerra, con il suo carico di violenza e di odio, di sofferenza e di morte, rende difficile celebrare la festa. Eppure, la Pasqua non è mai veramente facile, a meno che non la si voglia ridurre a un antico rito, a una semplice festa tra le altre. Poiché se per festa intendiamo soltanto una pausa di relax, un momento di allegria che renda poi più sopporta-bile il grigiore del quotidiano, allora si: quest’anno c’è decisamente poco spazio per la spensieratezza e lo svago e tanto spazio per il dolore e le lacrime.
Se la Pasqua invece è la celebrazione della passione e risurrezione di Cristo, se essa rende attuale per noi, qui e ora, il passaggio dalla morte alla vita, allora non è solo questa Pasqua a essere difficile ma è la Pa-squa stessa che è sempre difficile, è una festa difficile, come è difficile la vita cristiana: “Il cristianesimo non è facile ma felice”, direbbe effi-cacemente san Paolo VI.
Le dolorose circostanze attuali, allora, se da un lato rendono difficile lo svago, d’altro lato ci aiutano paradossalmente a entrare con più
consapevolezza nel mistero pasquale, mistero difficile, non tanto per la difficoltà del dogma, ma per la difficoltà ad essere accolto e vissuto da noi.
Difficile la Pasqua lo fu innanzitutto per Gesù. Non fu facile per Lui, nella notte più difficile della sua vita, la notte in cui fu tradito, fidarsi del Padre, tenere insieme gli amici, guardare al giorno in cui avrebbe bevuto con i suoi il vino nuovo del Regno. Non fu facile per Lui, pur nell’ardente desiderio del suo cuore, mangiare quella Pasqua con i di-scepoli impegnati a spartirsi primi posti e sogni di grandezza. Fu diffi-cile far capire a Pietro che in certe ore, che pure sembrano richiedere la spada, è proprio la spada a essere inutile, perché alla fine la vita non verrà dal prevaricare, ma dal servire: “Se dunque io, il Signore e il Mae-stro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13, 14). Arrivò a sudare sangue nello sforzo di mantenersi fedele a suo Padre che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, e ama gli ultimi quanto i primi. Sì, fu difficile la Pasqua di Gesù come è difficile l’amore quando è vero, quando si compie nel dono di sé fino alla fine, senza fermarsi prima. Il peccato infatti, (il cui termine significativa-mente compare per la prima volta nella Bibbia proprio a proposito della “guerra” fratricida tra Caino e Abele) ha reso difficile l’amore, faticosa la via della verità, dolorose le doglie del parto della vita nuova.
Perciò la Pasqua è sempre difficile per i cristiani, perciò è difficile es-sere cristiani della Pasqua, uomini della Risurrezione. Celebrare la Pa-squa di Cristo, infatti, consiste nel parteciparvi, nel farla diventare no-stra: Cristo nostra Pasqua! Ma per risorgere con lui occorre morire con lui e morire con Cristo non è mai semplice. Come scrive un grande fi-losofo cattolico, “La morte di Cristo è ben lontana dall' essere sempli-cemente un destino subìto, l'incidente deplorevole che fa cessare una struttura biologica. La sua è una morte accettata, il perfetto compiersi di una vita e non la catastrofe prematura di un corpo. La morte di Cri-sto è una morte feconda, è la fonte di vita che buca il muro opaco e compatto della dissoluzione per proclamare per ogni uomo il vero dies natalis, il giorno della gloria e della resurrezione” (Emanuele Samek Lodovici).
Le circostanze attuali della nostra festa pasquale non sono in fondo così diverse da quelle della Pasqua del Signore. Come allora, anche oggi il
desiderio di pace troppo facilmente si confonde con il bisogno di vitto-ria. Come allora, anche oggi la via di Barabba sembra convincere più di quella di Gesù. Come i discepoli in quella notte suprema e dramma-tica, anche noi ci ritroviamo smarriti e confusi, tentati di addormentarci per la tristezza in un irenismo rinunciatario, che non ha il coraggio della parresia, di lasciarsi ferire dal dolore altrui. Oppure, come Pietro, siamo tentati anche noi di prendere la spada, cominciando a colpire, lascian-doci così investire da sentimenti di violenza e di rifiuto, che però con-ducono solo alla morte. O peggio ancora, corriamo il rischio di tradire il Maestro svendendo il Suo messaggio e la Sua profezia, rinunciando alla grazia del perdono e del dono di sé, che invece portano alla vita vera. Come a loro, anche a noi troppo difficile appare la via del Maestro. Ma Egli attraversa la notte peggiore della sua vita con un amore più grande, donandosi fino in fondo prima nell’acqua versata sui piedi dei discepoli, poi nei segni del pane spezzato e del vino offerto e infine nel sacrificio di sé sulla Croce. Stare nel conflitto, attraversare la notte amando di più, credendo di più, sperando di più, donando e perdonando senza stancarsi: questa è la via della vita, quella vera.
Come cristiani dovremmo avere la forza e il coraggio di parole e gesti diversi, oserei dire alternativi, di fronte al dolore e alla notte del mondo, anche se questi risultassero difficili fino a essere incomprensibili. L’an-nuncio del Vangelo, del resto, è bello e buono solo agli orecchi di un cuore convertito alla verità e all’amore autentici.
“Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19). Ciò che celebriamo sull’al-tare, deve poi trasformarsi in carità operante nel mondo. Le parole e i gesti del Cenacolo, le parole e i gesti della Pasqua devono diventare nostri, perché possiamo portare luce nelle tenebre, riconciliazione nei conflitti, conforto nella prova. Dietro l’esempio del Maestro, vogliamo e dobbiamo alzarci dalla mensa eucaristica per portare nel mondo lo stesso desiderio di bene del Maestro, e continuare nel mondo il fer-mento celeste del pane del Mistero.
E tutto ciò non potrà mai essere il frutto di uno sforzo umano. Con le nostre sole forze noi non potremmo mai fare nostro questo stile, così alternativo e veramente rivoluzionario, lo stile dell’amore e del dono di sé. La vita cristiana non è la fatica di Sisifo, ma la risposta generosa, convinta e grata di chi ha sperimentato la gioia del perdono di Dio.
Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo” (Gv 13,7). Sì, è difficile per noi entrare dentro questo mistero, lasciarci convincere che non nel potere, nella forza e nel dominio passa il bene del mondo, ma nella mitezza, nel servizio e nel dono, nel lavare i piedi gli uni gli altri. Lo possiamo capire solo “dopo”. Dopo che i nostri piedi sono stati lavati da chi ci ama nonostante tutto, dopo che i nostri tradimenti sono stati perdonati gratuitamente. Dopo che la nostra vita è rinata dall’in-contro con il Risorto.
Perciò noi oggi siamo tornati misticamente al Cenacolo a rivivere l’ul-tima sera del Signore; siamo qui per rimetterci alla scuola del Maestro che ci chiede di fare, o meglio, di essere come Lui; siamo qui a rinno-vare la promessa di essere suoi ministri, cioè quei suoi amici fidati che, pur nella paura della morte, osano il salto dell’ obbedienza al Padre e del servizio ai fratelli, sapendo che non è un salto nel vuoto ma in Dio e nella Sua Parola, che promette risurrezione; siamo qui perché la mi-stica unzione dello Spirito ci conformi a Lui e alle Sue scelte e ci renda profeti di speranza e testimoni di un nuovo modo di vivere e morire.
Noi siamo qui perché vogliamo continuare a essere, pur nella fatica e nello smarrimento, cristiani e preti pasquali, capaci cioè di attraversare le mille notti della vita e del mondo, osando il passo del Maestro, con-dividendone l’intenzione, capaci con lui di un amore sempre più grande, donandoci fino alla fine con fiducia e speranza nel Dio che risuscita i morti.
Gerusalemme, 28 marzo 2024
†Pierbattista Card. Pizzaballa Patriarca
di Gerusalemme dei Latini